Cala la mortalità materna ma in Occidente c’è ancora tanto da fare
02 Maggio 2010
Nel mondo muoiono ogni anno 342,900 donne per cause legate alla gravidanza. Stiamo parlando di quasi mille persone al giorno. Ma, diversamente da quello che può sembrare, in realtà questa è una buona notizia: 30 anni fa infatti il numero totale di vittime della mortalità materna superava di gran lunga il mezzo milione di donne. E’ stato il settimanale “The Lancet” a lanciare la notizia riprendendo lo studio realizzato da alcuni ricercatori dell’Università di Washington e dall’Università di Brisbane che hanno stilato una classifica mondiale dei decessi basandosi sui dati raccolti nel periodo 1980-2008.
Si tratta di novità confortanti specialmente per le future madri che, nel giro di un’intera generazione si vedono ridotte del 35 per cento le possibilità di morire durante la gestazione o subito dopo un parto. Un risultato che è frutto di diversi fattori, ma soprattutto della diffusione di un maggiore benessere e progresso sanitario, del calo delle nascite e di una maggiore attenzione per le condizioni delle donne in attesa o che hanno dato alla luce. Ma lo studio rivela anche che, in certi casi, vivere in un’economia tra le più avanzate non è una condizione sufficiente per evitare morti innecessarie.
Nonostante il miglioramento del tasso di mortalità globale, i Paesi in via di sviluppo continuano a registrare i peggiori dati, con l’Afghanistan (1.575 donne morte per ogni 100mila) e la Repubblica Centrale Africana (1.570) in fanalino di coda. Circa l’80 per cento delle morti materne avvengono in appena 21 Paesi su 181 – principalmente dell’Africa sub sahariana e Asia meridionale – e, di questi, i responsabili di oltre la metà dei decessi totali sono solo 6 Paesi (l’India, il Pakistan, la Nigeria, l’Afghanistan, l’Etiopia e la Repubblica Democratica del Congo). Se è pur vero che il peggioramento dei dati sulla mortalità materna potrebbe essere dovuto ad una raccolta di informazioni più accurata e vicina alla realtà, la maggiore diffusione del virus dell’HIV, della tubercolosi e della malaria spiega perché i Paesi dell’area centroafricana hanno registrato un incremento talmente impressionante. Per ogni 5 decessi causati dalla gravidanza, per esempio, una donna muore a causa di un’infezione derivata dall’AIDS: sono 60mila le madri, quindi, che muoiono ogni anno non a causa della mancata assistenza ostetrica ma perché non possono accedere ai medicinali antiretrovirali.
Il merito della riduzione delle morti a livello globale è invece da attribuire a tutti quei Paesi che, nonostante i bassi standard sanitari, hanno messo in atto politiche di successo per l’assistenza alla maternità: in primis, la Cina, l’India, l’Egitto, l’Ecuador e la Bolivia. In particolare, l’India e la Cina – i due Paesi che contribuiscono maggiormente alla popolazione mondiale – stanno registrando grandi progressi: dai 523 morti nel 1990 ai 253 nel 2008 per il primo, dagli 87 ai 40 nello stesso periodo per il secondo. Si tratta di piccoli passi che, a livello locale, creano grandi risultati: dall’investimento nella formazione del personale medico e infermieristico ai consulenti per l’educazione alla salute, una scommessa fatta principalmente coi finanziamenti provenienti dai Paesi sviluppati. In Nepal, per esempio, il sistema prevede ora l’assistenza a domicilio nei piccoli villaggi e il governo del Malawi ha investito per formare meglio il personale paramedico per realizzare cesarei d’emergenza fuori dagli ospedali. L’India invece paga le donne affinché ricevano assistenza prenatale e in Brasile il sistema sanitario è gratuito per le donne in attesa.
Ma è proprio dall’Occidente che giungono le notizie più sorprendenti. Nonostante i soliti pregiudizi, secondo la ricerca il sistema sanitario italiano è leader nel “parto sicuro”. Nel nostro Paese, il numero di donne che muoiono durante un parto (o entro i 42 giorni successivi) sono poco meno di 4 per ogni 100mila, segnando un miglioramento del 3,5 per cento rispetto al 1990. Un dato sicuramente molto lontano dalla media globale (influenzata dalle tendenze negative dei Paesi in via di Sviluppo), cioè 251 decessi, ma anche dalle cifre di Paesi altamente avanzati come gli Stati Uniti, il Canada o la Gran Bretagna. Gli Usa, per esempio, si trovano al 39esimo posto, con 17 morti per ogni 100mila donne gravide e con una crescita del 42 per cento negli ultimi 30 anni (nel 1980 erano 12). Il quotidiano inglese “The Guardian” è arrivato ad ironizzare che è meglio partorire in Albania che in Inghilterra perché in Gran Bretagna – che si trova alla 23esima posizione del ranking mondiale – il numero di donne decedute per cause legate alla gravidanza è rimasto tale e quale a quello del 1990, rimanendo dietro a Paesi come l’Ungheria, la Polonia o, appunto, l’Albania.
I ricercatori attribuiscono queste cattive performance a vari fattori. Un contributo lo dà lo spostamento in avanti dell’età della gravidanza nei Paesi occidentali: è scientificamente dimostrato infatti che quanto più giovane è la madre tanto minori sono i rischi di complicanze, considerato lo stress fisiologico durante i 9 mesi di gestazione. C’è anche chi sottolinea che questi Paesi sono stati soggetti, negli ultimi decenni, ad importanti i flussi immigratori. Le clandestine partoriscono in casa e in condizioni di igiene precarie per paura di venire espulse. In caso di complicazioni del parto, quindi, un’immigrata illegale paga spesso con la sua vita la nascita di un figlio. In questi Paesi, non è da trascurare neanche il sempre maggior numero di madri affette da gravi malattie come l’obesità, il diabete e l’alta pressione. La metà delle donne della California, per esempio, sono in sovrappeso o addirittura obese, con una spesa di assistenza medica che si aggira intorno agli 8 miliardi l’anno. Secondo alcuni medici, ad influenzare l’aumento della mortalità materna in Occidente ci sarebbe anche l’attuale tendenza a praticare cesarei pure in casi in cui non sono realmente necessari: le donne che partoriscono con un cesareo, infatti, sono più suscettibili ad avere un’emorragia che può causare maggiori complicanze. Oggi, negli Stati Uniti ogni tre future madri, una sceglie questo metodo per partorire.
L’aborto è una delle possibili cause che per molti esperti viene sottovalutata. La più grande organizzazione abortista mondiale, la International Planned Parenthood Federation (IPPF) di recente ha ammesso che c’è un’allarmante “impennata” di mortalità materna in Sud Africa, smentendo il ritornello abortista secondo cui leggi liberali sull’aborto fanno diminuire la mortalità materna. Tra il 2005 e il 2007 in Sud Africa c’è stato un aumento di morti materne del 20 per cento, malgrado dal 1996 questo Paese abbia una legge sull’aborto tra le più permissive del Continente africano. Anche se la maggior parte delle morti è attribuibile all’infezione da HIV/AIDS, l’IPPF ammette che una porzione rilevante di decessi “è dovuta a complicazioni dell’aborto”, proprio in un Paese in cui la procedura è legale e ampiamente disponibile. Al contrario, a Mauritius – dove le leggi sono tra le più protettive per il bambino non nato secondo il Rapporto 2009 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) – si registra il più basso tasso di mortalità materna tra le nazioni africane. Allo stesso modo il Rapporto mostra come i Paesi che negli ultimi anni hanno ceduto alle pressioni internazionali depenalizzando l’aborto, come l’Etiopia, non hanno affatto visto diminuire la mortalità materna. Il tasso di mortalità materna in Etiopia è circa 20 volte più alto che a Mauritius.
La riduzione del numero di donne che perdono la vita durante il parto è stata, negli scorsi anni, una battaglia sostenuta dalle maggiori istituzioni governative e sanitarie nel mondo, e i dati confermano così che grazie ad un impegno sostenuto globalmente si possono ottenere progressi anche molto significativi nel contrastare malattie e mortalità. La lotta alla mortalità materna è infatti uno dei Millenium Development Goals, gli otto obiettivi di sviluppo che tutti gli stati membri dell’Onu si sono impegnati a raggiungere entro il 2015.
Ma lo studio ripreso dal Lancet, la più importante e rispettata rivista di ricerca medica inglese, non solo è importante per i suoi inaspettati risultati ma anche perché fotografa anche gli interessi che si nascondono dietro la ricerca. Da un lato, infatti, c’è la ricerca dell’Università di Washington e dall’Università di Brisbane, che è stata finanziata niente meno che la “Bill and Melinda Gates Foundation”, la più grande fondazione del mondo attiva principalmente nel settore della ricerca medica, nella lotta all’AIDS e della malaria, nel miglioramento delle condizioni di vita nel terzo mondo e nell’educazione. Dall’altra, gli studi svolti con il patrocinio delle grandi istituzioni internazionali come il World Bank, le Nazioni Unite e la World Heath Organization, che puntano spesso a mettere più in evidenza i “mali del mondo” che i progressi fatti, con l’obiettivo di spingere i governi nazionali a dare più aiuti alla comunità internazionale.
Spesso in polemica con le grandi istituzioni internazionali, la “Bill and Melinda Gates Foundation” in questo caso si era posta come obiettivo proprio quello di valutare i progressi relativi alla mortalità materna nel mondo. La scoperta di un miglioramento del tasso di decessi legati alla gravidanza contrasta, di fatto, con le campagne avanzate da organizzazioni come l’Unicef, Safe the Children e WTO che continuano a lanciare allarmi mediatici sul tema (è stata proprio l’Organizzazione Mondiale della Sanità neanche un anno fa ad affermare che “oggigiorno le madri e i neonati hanno le stesse possibilità di sopravvivenza rispetto a 20 anni fa”). Il tutto con lo scopo di ottenere maggiori risorse finanziarie.
Lo stesso “Lancet” ha denunciato d’aver ricevuto pressioni da parte di gruppi di difesa della salute della donna che, nei giorni precedenti alla diffusione della notizia, avrebbero chiesto di ritardarne la pubblicazione per paura che le “buone notizie” potessero oscurare le loro campagne politiche. Non è un caso che proprio nei prossimi mesi si terranno i più importanti meeting internazionali in materia (quello dell’Onu a Washington nei prossimi giorni – in cui il Segretario di Stato americano Hillay Clinton avrebbe già promesso di dare più fondi per investire nella salute materna –, quello di giugno presso il Pacific Health Summit o anche l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di dicembre). Per molti esperti del settore, in realtà, i dati positivi producono l’effetto contrario a quello tanto temuto dagli attivisti: “Per 20 anni – spiega Flavia Bustreo, direttore del Partnership for Maternal, Newborn and Child Health – il movimento per la difesa della ‘maternità sicura’ ha dato l’impressione che non ci sono stati progressi. Ma sentire che sono stati fatti passi avanti è un grande successo”. “Per noi, le buone notizie non possono che mantenere l’interesse degli investitori”, conclude Bustreo.
Senza dubbio, la diminuzione dei decessi causati dalla gravidanza nei Paesi in via di sviluppo è stata possibile grazie agli aiuti finanziari, materiali e formativi provenienti dai Paesi occidentali. Le buone politiche sanitarie attuate dai governi interessati hanno fatto tutto il resto. Resta però il dubbio di come e se riusciranno ad affrontare la questione quei Paesi in cui il problema della mortalità materna non si può risolvere con i soldi ma bensì con un vero e proprio cambio di mentalità.