Cambiare passo al governo e rifondare il Pdl: avviso al Cav. dai “servi liberi”
08 Giugno 2011
C’è una cosa che al Teatro Capranica si è respirata, vissuta, partecipata, nel bene e nel male: la voglia di parlare e di farlo in assoluta libertà. Lontano dalla cappa della solennità di un congresso, lontano dalla rigidità “istituzionale” dei vertici a Palazzo Grazioli o nelle stanze di via dell’Umiltà. Libertà di dire che Berlusconi ha sbagliato, che così il Pdl morirà, che serve una scossa, che bisogna cambiare tutto o che non si può buttare via Berlusconi e il berlusconismo, che serve una rifondazione del Pdl ma senza rese dei conti, che il leader resta il “faro”e la via non è e non può essere avvitarsi sul dopo o pretendere di fare un funerale senza la salma (copyright Sallusti), che niente è perduto e c’è ancora tempo per rimettersi in carreggiata.
Di Berlusconi, convitato di pietra all’happening voluto da Giuliano Ferrara che ha ‘convocato’ i direttori dei giornali di area (Vittorio Feltri e Alessandro Sallusti de Il Giornale, Maurizio Belpietro di Libero, Mario Sechi de Il Tempo) e del Pdl, si è detto, urlato, commentato sul palco e in platea, tra gli elettori di centrodestra che c’erano perché volevano capire e, appunto, dire la loro. Senza freni inibitori o timori reverenziali. Per comprendere cosa è successo a Milano e Napoli, come reagire e soprattutto come rilanciare il progetto politico. Un bisogno popolare intercettato e raccolto dal direttore de Il Foglio.
Forse avrebbe dovuto già farlo il partito magari adottando una formula simile, all’indomani della sconfitta elettorale, anziché i “servi liberi del Cav.” che non hanno fatto altro che dire ciò che da giorni scrivono sui loro quotidiani, analisi realistiche, più o meno impietose, ma tutte con una raccomandazione: non è più possibile vivacchiare, è il momento di reagire. E a farlo deve essere per primo il Cav. Atteso e annunciato dall’Elefantino per mezzogiorno in punto, lui non si è materializzato e qui le congetture sul come mai, tra i parlamentari presenti al Capranica si dividono tra chi ritiene che quella di Ferrara sia stata una provocazione delle sue, e chi più diligentemente giustifica l’assenza del ‘capo’ col vertice Pdl a Palazzo Grazioli. Al suo posto una sagoma in cartone riprodotta a grandezza naturale che ritrae un premier sorridente e quasi compiaciuto del fatto che, nel bene o nel male, si parli di lui. Idea ‘fogliante’ giocata sul filo dell’ironia. Eppure in un teatro stracolmo la gente ci aveva creduto.
Il sasso nello stagno Ferrara lo lancia con una proposta, non per far fuori Berlusconi ma per sollecitarlo a tornare alla politica: “Libere primarie generali a data ravvicinata, il primo e due ottobre, con un regolamento semplice” e con l’impegno dei “potenziali leader nazionali, ministri, ministre e dirigenti di partito a mettersi in gioco”. Il punto è che il Cav. non ha capito il segnale di allarme arrivato dalle amministrative e “noi amici non servili vogliamo dargli un consiglio disinteressato: cambia passo, rimettiti in gioco e rilegittimati con una grande campagna nazionale, con una visione politica, altrimenti non ci sarà nessun rilancio dell’azione di governo”, scandisce l’Elefantino che poi completa l’appello al premier: “Sostituisci l’autocrazia con la democrazia”, perché dopo Milano e Napoli dove l’outsider Berlusconi è stato battuto dagli outsider Pisapia e De Magistris, avrebbe dovuto dire ‘me ne assumo la responsabilità, ascolto il popolo e mi rimetto a lavorare”.
Tutto ciò non è accaduto e per questo Ferrara chiede al Cav. di “non diventare una statua di cera, di tornare a combattere rimettendosi al centro della scena politica con una grande campagna nazionale, altrimenti sarà la fine”. La sollecitazione muove anche dall’idea che Berlusconi esce dal voto amministrativo come un leader indebolito, non finito, ma non per questo “può comportarsi come il capo di una minoranza. Non può essere semplicemente l’uomo che vuole espugnare le procure per riportare la legalità in un Paese dove tutto questo è stato sconvolto”. E non può, perché di mestiere fa il presidente del Consiglio e “deve esprimere un ruolo generale di governo. Non si possono vincere le elezioni se si passa il tempo con il proprio collegio difensivo e se si fanno monologhi di cui il Paese si è stufato”. In prima fila ascoltano i ministri Brunetta, Galan e Meloni, il capogruppo del Pdl alla Camera Cicchitto, il coordinatore nazionale Verdini, il sottosegretario Santanchè, le parlamentari Bernini, Lorenzin e Mussolini.
Il direttore de Il Tempo ricorre senza indugio alla metafora del Titanic per raccontare ciò che a suo avviso sta accadendo nel Pdl e ciò che realisticamente rischiano il partito e il leader: “L’orchestrina suona sul ponte mentre qualcuno sta tentando di affondare la nave dicendo che è tutto da buttare”. Il riferimento è alle correnti, i gruppi e sottogruppi che si agitano ma di questo passo faranno a pezzi il partito. Cita Scajola che la mattina si sveglia e dice che vuole rifare la Dc, ma in sala gli ricordano, bocciandola, la scelta di Miccichè di lasciare il Pdl e fondare un gruppo parlamentare autonomo (per ora e per mancanza di numeri traslocherà nel gruppo misto con dieci deputati e quattro senatori disposti a seguirlo).
Evitare accuratamente tutto ciò per non essere spazzati via, perché – spiega Sechi – chi pensa al dopo-Berlusconi come al gioco del piccolo chimico “non ha capito nulla”. Né si può pensare che l’unica risposta sia nella nomina di un segretario politico e la conferma di tre coordinatori: ciò che serve è rilanciare il progetto politico. Bene le primarie ma serve una “rivoluzione nel partito” e occorre far presto perché “o Berlusconi cambia tutto o gli elettori cambiano lui e in maniera definitiva. Finchè è in campo deve giocare e cambiare gioco. C’è tutto da perdere e non c’è tempo da perdere”.
Maurizio Belpietro esordisce ricordando le tante cose fatte da Berlusconi in questi diciassette anni (dalla più importante riforma del lavoro che costò la vita a Marco Biagi alla quella dell’università) ma non esita a mettere in fila gli errori più recenti, come quelli di insistere pervicacemente sulla giustizia e di affermare che se Milano e Napoli sono andate alla sinistra radicale la colpa è di Santoro e Annozero. In diciassette anni – è il ragionamento del direttore di Libero – poteva riformare giustizia e Rai.
Quanto alle primarie spiega che servono perché dimostrano che c’è voglia di stabilire come sarà il centrodestra, ma non nasconde il suo scetticismo sulla possibilità che alla fine il Pdl le faccia davvero dal momento che c’è chi “le vede come una minaccia alla propria poltrona. Penso che anche lo stesso Berlusconi nonostante l’apertura, non sia molto favorevole perché in qualche modo significherebbe certificare la corsa alla sua successione”. La ricetta, per Belpietro sta in un elemento: “Berlusconi deve tornare a far sognare il paese, indicando una prospettiva per l’Italia, lo deve fare per il paese altrimenti lo consegnerà alla sinistra”.
Sulle primarie tornano i politici che si avvicendando sul palco: per Galan e Meloni vanno bene ma non per la leadership perché il momento non è ancora arrivato. La Santanchè, invece, taglia corto e dice no allo strumento di consultazione popolare. Il ministro della Cultura è convinto che la soluzione è tornare non tanto allo spirito quanto “alle promesse del ’94 che non abbiamo mantenuto, alla rivoluzione liberale, anche se “abbiamo cambiato l’Italia. Potevamo cambiarla in meglio, ma penso che lo possiamo fare con Silvio Berlusconi”. In questo senso, se le primarie possono essere “un esercizio di democrazia”, guai a tornare ai “signori delle tessere”. La Meloni rilancia non solo le primarie ma anche i congressi e la necessità di rimettere mano alla legge elettorale per evitare l’esercito dei nominati.
“Non lo imbalsamate” è l’exploit della Mussolini mentre bacia la sagoma del Cavaliere, “lasciatelo respirare” e giù critiche ai consiglieri del premier, come su quanto è accaduto a Napoli con Lettieri “che per carità ce l’ha messa tutta ma sembrava un agente immobiliare” mentre De Magistris per strada veniva apostrofato dalle signore come “nu bello guaglione”. Tocca a Sallusti frenare l’irruenza della Mussolini quando dice attenzione a buttare nel cestino un’intera classe dirigente che finora ha vinto politiche, europee e regionali. E, ironicamente, invita Ferrara a non mettere in scena “un regicidio, perchè dobbiamo partire dal presupposto che il berlusconismo è una monarchia”. Chiude con una considerazione: a Napoli e Milano è andata così perché non è stato Berlusconi a scegliere i candidati, ma altri che lo hanno fatto al posto suo.
Sul tramonto del berlusconismo si concentrano gli interventi degli “infiltrati di sinistra”, Marina Terragni (fischiatissima dalla platea), Ritanna Armeni (risparmiata solo a metà) e di Piero Sansonetti (applaudito) che riconosce al Pdl di essere stato l’unico partito a difendere il garantismo e condotto una battaglia contro lo strapotere dei giudici. Per il resto, il suo è un pollice verso ma è anche un monito alla sinistra che può rinascere solo se diventa “radicale, liberatria e riformista” , tutto ciò che non è “la sinistra de La Repubblica, di De Benedetti e di Marchionne”.
E’ Vittorio Feltri a tirare le fila e a suonare la carica, cercando di allontanare il più possibile l’effetto depressione dal popolo di centrodestra dopo la batosta elettorale. Dice che pure se malamente e con errori grossolani si è persa una battaglia ma non la guerra e che mancano ancora due anni alla fine della legislatura; ragione sufficiente per concentrarsi su due o tre punti del programma elettorale (non sulle tasse perché quelle per ovvi motivi il governo non riuscirà ad abbassarle) sui quali “impegnarsi fino alla morte e arrivare al 2013 in condizioni di vincere le elezioni, perché la sinistra non c’è. E se a sinistra il candidato premier è Bersani e noi perdiamo le politiche, allora io torno qui e mi sparo”. Applausi.
La cura antidepressiva al corpaccione pidiellino serviva e pare fare effetto. Resta da capire se la “sveglia” è risuonata per davvero tra via dell’Umiltà e Palazzo Grazioli.