Caro Bossi, senza gli stranieri interi comparti entrerebbero in crisi
30 Novembre 2009
Nell’ambito dell’esame del disegno di legge finanziaria 2010 alla Camera ha sollevato un certo scalpore un emendamento di un deputato della Lega Nord che propone di limitare a soli sei mesi la possibilità per i lavoratori immigrati di avvalersi della cassa integrazione guadagni. Questo emendamento è espressione di un atteggiamento verso gli immigrati che non è condivisibile né tollerabile.
Un conto è essere severi con i clandestini (anche se occorre valutare, con sano realismo, che esiste una zona grigia tra clandestinità e regolarità che è spesso prodotta non solo da processi per loro natura ineliminabili, ma anche da leggi sbagliate a disciplina delle regolarità); ma trattare i lavoratori stranieri regolari, che pagano le tasse e i contributi, come soggetti di serie B sarebbe tutto un altro paio di maniche.
Oggi, il nostro Paese ospita, secondo le più recenti statistiche, 4 milioni di cittadini stranieri residenti, circa il 6,5% della popolazione (era al di sotto del 3% nel 2001 e pari allo 0,1% dieci anni prima), mentre la quota degli occupati sale ormai al 7,5% come dato medio, con punte più elevate nelle regioni più ricche e sviluppate (nel Centro-Nord il numero degli immigrati è di quattro volte superiore a quello del Sud). Senza il lavoro degli stranieri, interi settori dell’economia (agricoltura, turismo, costruzioni, servizi alla persona, ma anche comparti dell’industria manifatturiera) incontrerebbero delle enormi difficoltà.
Il lavoro degli immigrati, poi, non è sempre riconducibile, per fortuna, al classico profilo dei lavori umili, disagiati, come tali rifiutati dagli italiani. Prendiamo il caso dell’agricoltura, un settore che proprio in questi giorni presenta le proprie istanze al Governo, nel quadro della manovra di bilancio. Un settore che nell’immaginario collettivo è ritenuto essere in prima linea nel confronto con il fenomeno della clandestinità. Anche se in alcune aree del Paese il lavoro sommerso continua ad essere (non solo in agricoltura) una vera e propria piaga sociale, l’occupazione in agricoltura può essere indicata come esempio di coesione sociale e di integrazione multietnica. A dimostrarlo ci sono migliaia di immigrati impiegati nelle produzioni agricole nazionali di massima eccellenza, con una forbice tra gli stipendi riservati agli italiani rispetto agli extracomunitari ridotta al 2 per cento (dati Istat), ovvero circa 6 volte meno che nel settore manifatturiero. In tutto sono 90.000 i lavoratori dipendenti provenienti da Bangladesh, Marocco, India, Albania, Pakistan, Malawi, Tunisia, Sri Lanka. Di questi il 42 per cento sono impiegati nella produzione delle colture arboree e nella raccolta della frutta, il 32 per cento nella raccolta di ortaggi e pomodori, il 13 nell’allevamento, i restanti nell’agriturismo e nella vendita dei prodotti.
Intanto crescono le imprese a conduzione extracomunitaria, che negli ultimi 5 anni sono aumentate del 26,3 per cento (fonte Unioncamere) nonostante le statistiche non comprendano ormai più i tanti lavoratori neocomunitari provenienti da Romania e Polonia. Quasi 7mila aziende agricole, per la maggioranza condotte da albanesi, tunisini, serbi e montenegrini, macedoni e marocchini, cui si affianca una quota sull’emerso che nel 2008 sfiora il 13 per cento del totale degli addetti in agricoltura (fonte Inea). In sostanza, figure professionali, spesso erroneamente identificate come bassa manovalanza, acquistano oggi un ruolo chiave nella produzione dei marchi “made in Italy” famosi nel mondo. Non più solo i Sikh della Pianura italiana, la comunità di indiani esperti nella mungitura del bestiame da latte. La leggenda vuole che, in ragione della sacralità verso l’animale, i Sikh siano etnicamente avvantaggiati nella mungitura. La realtà è invece un’altra, e fa seguito alla decontadinizzazione dei villaggi rurali indiani. Si tratta di immigrati dell’agricoltura e dall’agricoltura, che a Montichiari e dintorni hanno sostituito gran parte dei bergamini italiani (divenuti introvabili nel mercato del lavoro). La mappa degli immigrati doc potrebbe proseguire quasi in ogni regione italiana, a partire dalle nobilissime Langhe, care a Cesare Pavese, dove tra i vitigni di barbaresco, barolo e dolcetto, si parla quasi esclusivamente macedone. Una vera e propria comunità – completa di prete ortodosso e ristorante tipico – che conta nelle Langhe circa 5mila cittadini provenienti quasi tutti dalla loro capitale, Skopje. “Una manna dal cielo”, a detta dei saggi viticoltori della zona, che, dopo aver verificato la bravura dei macedoni, hanno favorito una vera e propria catena migratoria, accogliendo, a partire dalla guerra dei Balcani, anche amici e parenti dei nuovi viticoltori doc.
Nella mappatura del "made in Italy" prodotto da extracomunitari non sono più considerati quelli romeni, ora neocomunitari, tuttora molto attivi con migliaia di addetti nella raccolta di mele in Alto Adige, nel vitivinicolo in Veneto e nella panificazione in tutto il Paese. Il deficit statistico causato dalla loro uscita è comunque ampiamente compensato. A partire dai soliti cinesi, che lasciano momentaneamente l’occupazione principale – quello del tessile – per tornare alle origini andando nelle risaie di Vercelli e Novara.
Proseguendo lungo lo Stivale è possibile ripercorrere quasi tutti i principali distretti produttivi del Paese, in una sorta di globalizzazione del tipico fatta di contaminazione continua di dialetti, lingue, sapori e tradizioni. Così, se in Veneto su 50mila salariati agricoli ben 9mila sono extracomunitari, con una buona quota di albanesi impegnati nei campi di tabacco, i senegalesi in Emilia Romagna hanno ricevuto una speciale dispensa dal loro capo religioso per massaggiare il prosciutto di Parma, dove buona parte degli addetti agli allevamenti e alle carni sono immigrati. A Sabaudia ritroviamo i Sikh indiani, esperti – guarda caso – nell’allevamento di bufale.
Certo, come abbiamo già ricordato, in altre aree del Paese, soprattutto al Sud, nel Casertano o in Puglia, è frequente il lavoro nero, esistono forme di "caporalato" che vanno combattute con la forza della legge. Ma anche in quei casi gli immigrati sono le vittime di un sistema malavitoso che spesso li trasforma anche in carnefici di se stessi. Ma è quello il problema. Ed è prima di tutto un problema nostro.