
Caro Corsera, l’unico decreto che la Camusso vuole è “per la rappresaglia”

08 Novembre 2012
Con la sua lettera al Corriere della sera (domenica 4 novembre), Susanna Camusso mira a dettare una vera e propria agenda politica al Governo con due precisi obiettivi: profanare l’Art. 8 in materia di contrattazione aziendale e consacrare l’accordo interconfederale 28 giugno 2011. Per raggiungere questi obiettivi, peraltro tra loro complementari, il segretario generale Cgil non intende imboccare il naturale percorso del confronto sindacale per un accordo tra le parti sociali; no: vuole l’imposizione per via legislativa.
Più furba che schietta, la leader del sindacato rosso sfrutta l’occasione dei licenziamenti dei 19 dipendenti Fiat, urticante a tutti, e, prospettando la soluzione di “più democrazia e meno discriminazioni”, invoca in realtà una dittatura statale nel campo delle relazioni industriali. Ma un decreto che recepisca i contenuti dell’accordo 28 giugno 2011 sarebbe davvero «un bel segnale di cambiamento» come sostiene la Camusso? No! Sarebbe, anzi, un assurdo e illogico passo indietro.
La vicenda è ormai arcinota. Riguarda la sentenza della Corte di Appello che ha dichiarato la Fiat colpevole di discriminazione per non aver assunto i lavoratori iscritti alla Fiom. Costretta alla riassunzione degli operai discriminati, la Fiat ha avviato la mobilità (anticamera del licenziamento) per 19 dipendenti, quant’è proprio il numero di lavoratori peri quali la magistratura ha imposto l’assunzione immediata, evidentemente in seguito della riorganizzazione della forza lavoro in azienda.
La Fiat ha rispettato o no la sentenza del giudice? Sì, a parere di chi scrive. E il fatto che poi abbia avviato la mobilità per altrettanti operai già in forza? E’ un altro discorso che non ha nulla a che vedere con la sentenza della magistratura: anzi ne è la conseguenza. Per quanto possa urtare la nostra permalosità, infatti, all’azienda che riesce a dar da lavoro a 100 operai nessuno può imporre di averne di più, nemmeno la magistratura; perciò la Fiat, con la mobilità, non sta violando alcun principio di democrazia né sta operando nuove discriminazioni: sta semplicemente ragionando da impresa. “Colpa” della magistratura, insomma, se si vede costretta a licenziare. Non la pensa così (ovviamente) la Camusso: «una simile discussione sarebbe impensabile in altri Paesi», scrive nella lettera. E aggiunge: «Non la immagino negli Stati Uniti dove, sono certa, la Corte suprema non avrebbe dubbi a sanzionare l’azienda se dei lavoratori ricorressero contro la Chrysler perché non assume lavoratori neri o musulmani o aderenti a qualche associazione di categoria».
Questo non è un discorso da leader di un sindacato, ma da esponente anti-politico. Come una veterana “grillina”, infatti, la Camusso riesce bene a girare la frittata della sentenza dalla discriminazione (rispettata dalla Fiat perché riassume i discriminati) in una nuova discriminazione, che non c’è, sui licenziamenti dei dipendenti. Facendo finta di non vedere che, come negli Stati uniti, anche in Italia un giudice sanziona l’azienda per non aver assunto lavoratori iscritti alla Fiom, Camusso sposta l’obiettivo dalle “assunzioni” (decise dal giudice) ai “licenziamenti (decisi dalla Fiat). Ciò che manca in questo suo proclama è una serena valutazione delle conseguenze della sentenza: se ci fosse stata, la Camusso avrebbe dovuto ammettere la “necessità” della Fiat di dover riequilibrare la forza lavoro aziendale (da cui la decisione per la messa in mobilità di 19 dipendenti).
Pienamente condivisibile, invece, è quanto dice la Camusso sul fatto che «bisogna rimuovere la discriminazione senza determinarne altre». D’accordo, ma a chi spetta farlo e farsene carico? Qui si arriva a un nuovo bivio: la Camusso, non lo dice, ma a lei farebbe piacere un regime in cui il giudice, oltre a condannare l’azienda a rimuovere la discriminazione obbligandola a riassumere i lavoratori discriminati, avesse anche il potere di imporre all’azienda di non fare altri licenziamenti; ad altri, come me, invece, farebbe piacere un sistema più liberale in cui il giudice avrebbe il solo compito di condannare l’azienda ad indennizzare le discriminazioni ponendo così su uno stesso piano “tutti” i lavoratori: i dipendenti e gli imprenditori. Ecco: affrontare queste due soluzioni e discuterci su potrebbe essere un buon inizio per cambiare veramente quest’Italia troppo assopita e intorpidita da un sindacato sedativo e narcotizzante. Sull’occupazione non ci sono vinti né vincitori: se un’azienda chiude, sotto il peso di condanne all’assunzione senza se e senza ma, sarà pur punito il disonesto imprenditore (forse in colpa, ma sempre con dolo?), ma i primi a rimetterci sono i lavoratori e l’Italia (che è una Repubblica fondata sul lavoro).
E allora come «rimuovere la discriminazione senza determinarne altre»? Per la Camusso la via da seguire è «quella indicata dall’accordo interconfederale del 28 giugno 2011». In questo modo, spiega, «i dipendenti Fiat tornerebbero a essere lavoratori metalmeccanici e non più figli di un contratto aziendale costruito a misura dell’azienda». Per la Camusso è una «strada che si dovrebbe percorrere» non sul naturale terreno delle relazioni industriali, ma sul campo legislativa. Un decreto che recepisca i contenuti dell’accordo 28 giugno 2011, conclude la Camusso, «sarebbe un bel segnale di cambiamento». A perire sotto la scure normativa sarebbe per primo proprio la Fiat. Avrebbe, infatti, il risultato di obbligare al rientro per la finestra chi volontariamente si è messo alla porta dell’ombrello Confidustria – unico sindacato dei datori di lavoro ad aver siglato l’accordo 28 giugno 2011 – grazie all’opting out concesso dall’Art. 8 e dichiarato legittimo anche dalla Corte costituzionale (anche la Camusso dovrebbe rispettare le sentenze!).
La Camusso non vuole un «decreto per la rappresentanza» (che è tutt’altra cosa) come ha titolato il Corriere il pezzo di domenica che riportava la sua lettera. Vuole un «decreto per la rappresaglia», cioè per una vendetta del sindacato.