Caro Feltri, la previdenza si riforma partendo dai giovani
10 Agosto 2011
Caro Direttore Feltri,
ho letto con interesse il suo ultimo editoriale e sono rimasto non poco sorpreso, a tratti perplesso, sul ragionamento della Previdenza come ancora di salvataggio per i conti pubblici. Le dico subito che la penso come Lei. Sono cioè d’accordo sulla necessità di innalzare l’età pensionabile; tuttavia ritengo troppo frettolosa e sbrigativa l’intuizione: “più anni di lavoro, più denaro”. Non credo che il tutto possa essere racchiuso in questa semplice equazione di profitto, che al permanere più anni in attività (effetto dell’innalzamento dell’età pensionabile) fa corrispondere (correttamente) pensioni più ricche.
Parto dalle conclusioni del Suo articolo: dice di essersi garantito “una buona dose di insulti” poiché “qualcuno ricorderà che all’età di 53 anni” è andato in pensione di anzianità. Poi aggiunge “pensione o no, sono qui a lavorare. E ho 68 anni”. Bene; chi Le scrive ha più di due decenni di anni in meno: senza pensione, anch’egli è qui a lavorare, del Suo stesso lavoro, ma senza pensione. C’è una bella differenza.
Non mi riferisco solo alla differenza di non avere, a fine mese, un assegno aggiuntivo; ma a un’altra differenza, più concreta: Lei può in ogni momento decidere di stoppare l’attività avendo il vitalizio di che vivere; io campo giorno dopo giorno nell’incertezza di raggiungere lo stesso vitalizio né tra 9 anni (a 53 anni) né tantomeno tra 24 anni (a 68 anni d’età). Nonostante questa differenza, un dato lega le nostre vite lavorative parallele (con tutto questo scarto d’età): il mio lavoro (la mia contribuzione) è garanzia del pagamento della Sua pensione. Perché il nostro sistema Previdenza – e arrivo ad uno dei punti nevralgici di discussione – si basa sul criterio cosiddetto della ripartizione: chi lavora fornisce le risorse per pagare le pensioni a chi è a riposo. E’ per questo che altro non pretenderei per i Lavoratori, cui corrisponde giocoforza la categoria dei Giovani, di avere voce in capitolo nelle decisioni di riforma.
La Previdenza, del resto, è un’Azienda finanziata dai Giovani: immagina Lei cosa succederebbe se davvero i Giovani (lavoratori) potessero gestire quest’Azienda su un ipotetico mercato? Chissà che spread con i titoli dei Pensionati! Dicevo che il nostro sistema Previdenza si basa sul cosiddetto criterio della ripartizione che lega, lo si voglia o meno, le sorti dei lavoratori a quelle dei pensionati, dei giovani agli anziani. Con la differenza, però, che i giovani offrono la loro parte (i contributi da lavoro) in cambio di una promessa, e cioè che quando saranno loro anziani anche i futuri giovani faranno altrettanto.
Su questo vale quanto ha scritto Lei: “l’incertezza, si sa, provoca ansia”! Eppure questo “presumere per legge” non esisterebbe se il sistema Previdenza fosse impiantato sul criterio a capitalizzazione. Con tale sistema, infatti, ogni lavoratore potrebbe liberamente decidere “quanto” reddito destinare alla pensione e “quando” abbandonare il lavoro (pensionarsi), senza che vincoli intergenerazionali (e di conti pubblici) possano interferire. E senza pesare sul Bilancio dello Stato. Questa dunque, a parer mio, sarebbe la ricetta giusta per risolvere, e davvero una volta per sempre, ogni problema di Previdenza; ma è di difficile attuazione ed è da scemi proporla in questo periodo di grave incertezza economica. Perciò, rimaniamo a discutere sull’unica alternativa che rimane, in attesa di bonaccia: manovrare ancora con il timone dei “limiti d’età”.
La realtà è quella che ha scritto Lei: oggi, rispetto a trent’anni fa, gli uomini e soprattutto le donne campano di più”. Perciò, se vanno in pensione prima di 65 anni (avendo davanti a loro una speranza di vivere per ancora 19 anni gli uomini e 22 anni le donne), meglio per loro ma molto peggio per l’Inps che deve mantenerli. Qui, però, va detta tutta la realtà: chi va molto peggio sono i Lavoratori che finanziano le pensioni con i loro contributi. Dunque, oltre che logica, è senz’altro cosa buona e giusta prevedere l’innalzamento dell’età di pensionamento. E sono d’accordo pure a prevedere l’età di 65 anni per tutti, a partire dal prossimo anno, sia per le pensioni di vecchiaia che di anzianità, sia per gli uomini che per le donne (senza dimenticare che per via della finestra mobile l’effettiva data di pensionamento subisce l’ulteriore slittamento in avanti di 12 mesi per i dipendenti e di 18 mesi per gli autonomi: quindi la pensione sarò incassata a 66 o a 66 anni e 6 mesi).
In questa decisione, dunque, vorrei che i Giovani potessero avere voce. Come? Avendo “qualcosa” in cambio, a mo’ di risarcimento per il differente trattamento previdenziale che subiranno rispetto ai loro predecessori. Mi spiego (anche perché, questo, i Sindacati non lo diranno mai, in quanto più preoccupati delle sorti dei “pensionati” che sono i loro veri azionisti).
Dicevo che, essendo cresciuta la speranza di vita, è giusto che l’età di pensionamento si allontani. Qualcosa è già successo con la manovra dello scorso anno e con quella più recente: tra nonno e nipote è plausibile anche un periodo di 20 anni di maggior lavoro prima della pensione. Tra padre e figlio di almeno 10 anni. Infatti, se il nonno è potuto andare in pensione nel 2000 all’età 50 anni, il nipote nel 2050 dovrà aspettare la veneranda età di 70 anni per avere il primo assegno di pensione. Almeno 20 anni di lavoro in più, dunque, in un arco temporale di 50 anni di vita (sono conclusioni elaborate su dati indicati dal Presidente dell’Inps, Anonio Mastrapasqua, nell’audizione alla Camera sul Libro verde dell’Ue sul futuro dei sistemi pensionistici europei).
Tra nonni e nipoti però c’è da considerare un’altra differenza: l’età media d’ingresso al lavoro. Oggi supera i 25 anni e richiede un periodo di rodaggio più o meno lungo: il giovane laureato che riesce ad avere il primo impiego a 30 anni, per andare in pensione con contribuzione piena, cioè dopo 40 anni, deve aspettare i 70 anni d’età. Questo serva a capire che, se un problema di “uscita anticipata” dal lavoro esiste, esso non riguarda le giovani generazioni, ma quelle appena precedenti. E arrivo al dunque della proposta. Una riforma che tenga conto delle giovani generazioni deve:
a) non toccare il limite dei “40” anni di contribuzione. E’ un tabù: io, giovane, devo avere almeno una “certezza” sul futuro della mia vita, e cioè che dopo 40 anni di contribuzione potrà mettermi a riposo;
b) prevedere la possibilità di essere assunti oppure d’impiegarsi in attività autonoma senza pagare un solo euro di contributi durante i primi cinque anni di lavoro. Cinque anni che non serviranno a nulla per la pensione (saranno anni persi), d’accordo. Ma favoriranno l’ingresso nelle aziende per via del minor costo del lavoro: la disoccupazione giovanile – non va dimenticato – è un’altro “ordigno” da disinnescare nel campo minato dell’attuale quadro economico (e previdenziale).
Caro Direttore, Lei ha scritto oggi “da pensionato vi dico: alziamo l’età pensionabile”. Da giovane (e finanziatore) della Sua pensione non ho timore a replicarle: “da lavoratore vi dico: alziamo l’età pensionabile”. Ma ad una condizione: chiedo incentivi al lavoro, per i giovani, in cambio di più anni di lavoro. Incentivi a costo zero, sulle spalle degli stessi giovani. Le porto la mia esperienza: ho fatto un rodaggio di circa 10 anni, da tirocinante, senza un euro di copertura contributiva. Sono stato fortunato! A 18 anni, mentre studiavo per laurearmi, già bazzicavo in studi di commercialisti, di consulenti del lavoro, negli uffici di Inps, Inail e aziende, per risolvere i problemi del lavoro. E’ stato un periodo d’intensa attività di formazione e apprendimento, che mi ha poi permesso altre finestre per affacciarmi al mondo del lavoro.
Ho avuto una sola sfortuna, che riguarda quanto ha detto Lei, e cioè che i Cittadini sono tenuti a rispettare le Leggi. Ecco, nel mio caso non è stato così, altrimenti avrei avuto da lavorare ancora soltanto 10 anni per andare in pensione. E invece me ne occorrono almeno altri 30, riforme o non riforme. Quel periodo di lavoro “irregolare” è stata la mia fortuna….
Con stima.