Casa d’altri, c’è Silvio D’Arzo tra i narratori delle aree interne

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Casa d’altri, c’è Silvio D’Arzo tra i narratori delle aree interne

Casa d’altri, c’è Silvio D’Arzo tra i narratori delle aree interne

02 Gennaio 2024

«Cosa fanno qui a Montelice?», dissi. «Beh. Vivono… ecco. Vivono e basta, mi pare.» […] «E poi muoiono». In questi termini il Doctor Ironicus – un tempo chiamato così per la sua intelligenza sottile, ora ‘nient’altro’ che un “prete da sagre” sessantenne – protagonista e voce narrante del piccolo capolavoro di Silvio D’Arzo, riassume l’esistenza degli abitanti di un piccolo borgo montano dell’Appennino emiliano della prima metà del XX secolo. A Montelice svolge la funzione di curato da oltre trenta anni.

Il racconto, Casa d’altri, viene pubblicato postumo nel 1952 sulla rivista “Botteghe Oscure”. Ripreso l’anno successivo da Sansoni, dal 1980 apre il volume omonimo di racconti edito da Einaudi. Riecheggiando, tra gli altri, in La messa è finita, il film di Nanni Moretti dell’85.

Vivere e poi morire, nell’inesorabile scorrere di un tempo in cui persona e natura coincidono vivendo nella scansione ciclica delle stagioni, ascoltando la pioggia e la neve e il suono dei campanacci delle capre, dinamiche inquiline del villaggio di cui spesso s’incrociano gli occhi invadenti come quelli di vecchie signore indiscrete. In un clima sospeso, uomini e donne trascorrono i loro giorni in occupazioni che hanno a che fare con la più semplice idea di vita e con la più semplice idea di morte: pascolare, cucinare, curare i decessi.

Un ciclico avanzare che si ripete uguale a se stesso nell’attesa e nella religiosa pazienza di chi nasce e aspetta la morte, che ogni notte sembra scendere a piccole dosi nell’ora in cui «la tristezza di vivere sembra venir su assieme al buio». Solitudine e silenzio, padroni di queste anime straordinariamente immobili, si ripropongono nella stessa ovvietà per rompere il torpore e dilaniare una coscienza. E così, la domanda di una vecchia lavandaia diventa un fatto assoluto, che nella sua semplicità scatena una guerra interiore.

L’orizzonte di vita e di morte è lo stesso, ma cosa succede se qualcuno decide di scegliere, in un mondo in cui la possibilità di dare una direzione alla propria esistenza sembra non figurare neppure tra gli orizzonti del pensiero, dove la vita succede e cosi è. Nel silenzio sacrale di una vita in cui neppure la parola è cosa ovvia, nel rigoroso ripetersi dei passi, nella più ubbidiente riverenza a Dio: se una donna chiede di morire senza peccato… in un luogo dove tutto è niente e niente cambia, Dio può fare un’eccezione?

Casa d’altri è un racconto «perfetto»

Silvio D’Arzo, pseudonimo di Ezio Comparoni, proprio di quelle zone – che erano sue – ha avuto qualcosa da dire: una forma di esistenza a cui è stata regalata una voce attraverso una delle più antiche forme di significazione. Un racconto a più riprese definito come exemplum di una struttura perfetta: personaggi ridotti all’osso di cui il lettore sa il minimo – ma sufficiente. Il gusto per le descrizioni regala l’aria sospesa della montagna, il rumore di un vento intriso di sospiri conduce il lettore attraverso la suspence di un mistero che regge l’intera narrazione per poi svelarsi alla fine, epilogo di una drammatica, paziente attesa.

Eugenio Montale lo acclama come un racconto «perfetto» e profonda sarà l’eco di questa opera nella letteratura del Novecento fino a toccare personalità decostruttive della tradizione come Pier Vittorio Tondelli. Attraverso Casa d’altri, Tondelli (ri)apre la porta a una forma di “romanzo ritrovato” e ci si accosta come nuovo, adeguato contenitore di espressione, di cui Camere separate (1989) è il frutto più maturo.

Casa d’altri spoglia la narrazione degli artifici barocchi e mostra nel suo scheletro l’essenza stessa della vita. Brutale, aspra, ma intensamente lirica. Una metafora profonda che per mezzo della letteratura, passa da un luogo e attraversa la vita, per ritornare alla letteratura stessa e proporsi come ritorno al classico, di cui Tondelli, perlomeno da prove letterarie come Rimini (1985) in avanti, è stato portavoce.

Le aree interne cento anni dopo

D’Arzo racconta il volto di un’Italia reale in cui perfino la guerra è cosa morta. Il contesto blocca il flusso del tempo e della storia, tanto che il presente non è universale e ci racconta di luoghi di questo Paese assoluti e immobili. La situazione dell’area appenninica del primo Novecento rispecchia effettivamente la narrazione, ma dopo un secolo di storia non possiamo dire che tutto sia cambiato: se cento anni fa capre, preti e stagioni erano protagonisti di questi luoghi, adesso lo sono l’assenza di opportunità, i disagi e la consapevolezza dell’emarginazione da un mondo interconnesso e globalizzato.

I microsistemi indipendenti e autarchici sono modelli di esistenza inattuabili al giorno d’oggi, e questo si traduce nell’abbandono e nello spopolamento: è sempre più frequente che i giovani migrino verso altre realtà per cercare migliori opportunità di vita. Queste comunità, questa parte d’Italia, questo pezzo di storia parallela, hanno il diritto di essere salvate?

Narratori di provincia

Occorre allora ricordare che le aree interne rappresentano più della metà del territorio italiano e ospitano circa 13 milioni di persone (il 22% della popolazione). Costituiscono una parte fondamentale della cultura composita del nostro Paese, che proprio nella coesistenza di piccole e variegate comunità ha trovato la sua cifra culturale e la ricchezza del suo panorama: un esempio è l’eccellenza in campo gastronomico, dalle materie prime ai prodotti finiti, frutto di tradizioni tramandate attraverso generazioni cresciute in sinergia coi territori.

Non solo: riserva di fonti energetiche primarie, biodiversità, patrimonio di valori, culture e saperi. Riserva culturale e letteraria con Silvio D’Arzo, Antonio Delfini, Gianni Celati, Ermanno Cavazzoni… Un mondo ancora vivo, che è stato e che tutt’ora è il presente. (Fine della terza puntata)

Leggi lo Speciale dell’Occidentale sulle Aree interne: 

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