Caso Mills, la bufera su Berlusconi sembra un film visto quindici anni fa

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Caso Mills, la bufera su Berlusconi sembra un film visto quindici anni fa

Il sapore è ormai inevitabilmente quello di una scena già vista. Sono passati più di quindici anni da quel famoso avviso di garanzia che Berlusconi si vide recapitare a Napoli, al cospetto degli altri capi di governo in una riunione del G8, e fatalmente il Paese scopre oggi di essere come assuefatto di fronte alla stessa storia che continua impietosa a ripetersi.

Sia ben chiaro, assuefatto non solo alle accuse che piovono sul Premier dalla magistratura milanese (per quanto sia processualmente determinante, dal punto di vista politico è ormai solo un dettaglio che a recapitarle sia la Procura, piuttosto che il Tribunale). Assuefatto anche alla reazione dello stesso Berlusconi, alla sua retorica sulle “toghe rosse”, sui giudici politicizzati.

Assuefatto alle scomposte prese di posizione dell’Associazione Nazionale Magistrati, che non perde occasione di dimostrare tutto il livore che nutre nei confronti di chi aspira a modificare il nostro sistema di giustizia, che pure è ormai da anni collassato su stesso.

Assuefatto alle speculazioni della sinistra, disposta ad utilizzare le vicende del Premier, processuali o personali che siano, come strumento del proprio affannoso tentativo di riavvicinarsi agli elettore delusi da anni di totale inettitudine.

Eppure dovrebbe destare quantomeno sgomento leggere nero su bianco, nelle motivazioni di una sentenza, che il Presidente del Consiglio è un corruttore. “Mills ha agito da falso testimone per consentire a Berlusconi e al gruppo Fininvest l’impunità dalle accuse o almeno il mantenimento degli ingenti profitti realizzati attraverso operazioni finanziarie illecite”. Non c’è bisogno delle spiegazioni di Di Pietro per comprendere quanto sia grave un’affermazione del genere.

Non sono necessari neppure i commenti approssimativi e superficiali di tanti esponenti del Pd, impegnati a spiegare alla Nazione il significato più profondo di una sentenza che non hanno letto, o di una lunga e intricatissima vicenda processuale della quale non si sono mai occupati.

Non può sfuggire a nessuno che, se davvero le cose stessero in questo modo, Silvio Berlusconi non potrebbe assolutamente continuare a guidare il Governo del nostro Paese.

Appunto: se le cose davvero stessero in questo modo. Neppure i clamorosi ribaltoni dei verdetti sul caso Sme sono riusciti a suggerire un miniomo di prudenza ai tanti irragionevoli oppositori del Premier.

In realtà l’Italia è un Paese in cui, dall’ultimo Tribunale di provincia, sino alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, non c’è un solo Giudice in grado di dare una risposta che sia effettivamente credibile e risolutiva, specie quando è vitale l’esigenza di giungere finalmente ad una certezza definitiva.

Men che meno può essere credibile un Giudice che ha manifestato pubblicamente e senza alcun imbarazzo le proprie decise posizioni anti-berlusconiane, o un Tribunale come quello di Milano, che da lustri si raccoglie intorno all’ossessione di liberare la Nazione dal Tiranno.

In una situazione del genere, come si può pensare di far dipendere le sorti del Governo dalla condanna di un avvocato inglese? Berlusconi ha scelto la strada poco ortodossa di andare in Parlamento ad accusare i Giudici che lo accusano. Intanto aprirà il paracadute del lodo Alfano, che gli permetterà di essere giudicato senza che la politica fagociti il merito della vicenda, quando magari anche i più accessi detrattori del sistema delle immunità per le alte cariche dello Stato, dovranno ricorrere a imbarazzate rivisitazioni delle affermazioni rese a caldo.

Il rischio è che nel frattempo la legittima speranza del Paese di conoscere la verità sulle accuse al Presidente del Consiglio si spenga, frustrata proprio dall’assuefazione ai mali della nostra Giustizia, prima ancora che a quelli della nostra Politica.