Cassazione condanna datore di lavoro per ingiuria
14 Novembre 2007
di redazione
La Cassazione ha condannato datore
di lavoro che aveva duramente criticato un suo subordinato, durante
l’orario di lavoro, usando “espressioni volgari” e dicendogli, in modo
dispregiativo, che non faceva nulla al lavoro.
La Suprema Corte di Cassazione ha confermato la
condanna per ingiuria nei confronti di un dirigente di una società di
Roma che aveva così offeso il suo dipendente.
Il capo, infatti, aveva detto :”mò
mai rotto li co…, io voglio sapè te che ca… ci sta a fà qua dentro, che
nun fai un cacchio ed altro”.
Il dipendente aveva così
denunciato il proprio datore di lavoro che era stato condannato per
ingiuria dalla Corte di Appello di Roma nel marzo 2006.
La quinta sezione penale della Cassazione, nella sentenza
42064, ha ricordato che “in tema di ingiurie, affinché una doverosa
critica da parte di un soggetto in posizione di superiorità gerarchica ad
un errato o colpevole comportamento, in atti di ufficio, di un suo
subordinato, non sconfini nell’insulto a quest’ultimo, occorre che le
espressioni usate individuino gli aspetti censurabili del comportamento
stesso, chiariscano i connotati dell’errore, sottolineino l’eventuale
trasgressione realizzata”.
“Se invece le frasi usate, sia
pure attraverso la censura di un comportamento, integrino disprezzo per
l’autore del comportamento, o gli attribuiscano inutilmente intenzioni o
qualità negative e spregevoli, non può sostenersi che esse, in quanto
dirette alla condotta e non al soggetto, non hanno potenzialità
ingiuriose”, conclude la sentenza.
L’imputato, Angelo P., aveva fatto ricorso in Cassazione contro la condanna per
ingiuria sostenendo che “in considerazione del rapporto gerarchico
esistente tra lui ed il suo subordinato Marco P., della circostanza che il
fatto avvenne durante l’orario di lavoro e che la persona offesa si era
intromessa in un colloquio di lavoro tra altre persone, peraltro in un
ambiente di lavoro ricco di tensione, quale quello della movimentazione di
valori, la frase pronunciata non aveva valore di ingiuria trattandosi di
espressione volgare e colorita utilizzata come forte critica nei confronti
di un comportamento stigmatizzabile del sottoposto”.
In altre parole, secondo la linea di difesa dell’imputato la
frase incriminata stava a significare che il subordinato si trovava fuori
luogo rispetto al suo naturale posto di lavoro. E’ alla luce
dell’evoluzione dei costumi e del particolare luogo di lavoro, ove era dato
udire ogni tipo di sconcezza, non era condivisibile l’opinione che il
dipendente, quasi rivestisse “la figura di Cappuccettorosso, si fosse
sentito offeso nell’onore”.
La Cassazione, però, non ha
ritenuto fondate le motivazioni del datore di lavoro romano affermando che “se
è vero che in materia di tutela penale dell’onore al fine di accertare se
l’espressione utilizzata sia idonea a ledere il bene protetto dalla fattispecie
dell’art. 594 occorre far riferimento ad un criterio di media convenzionale
in rapporto alla personalità dell’offeso e dell’offensore, nonché al contesto
nel quale l’espressione è stata pronunciata ed alla coscienza sociale”, nel
caso in esame “l’imputato non si è limitato a pronunciare, fra l’altro in
modo volgare, la frase “mo m’hai rotto li co…” ma aggiunto l’altra “io
voglio sape te che c…” diretta a stigmatizzare l’operato del sottoposto e
per questo ingiuriosa”.