Caucaso meridionale, crocevia instabile tra geopolitica ed energia
27 Marzo 2010
Se il Caucaso del nord piange, quello del sud non ride. Quello settentrionale, tutto sotto la pesante influenza di Mosca, configura una situazione di eterna turbolenza che lo stesso presidente russo Medvedev, nel suo discorso in Daghestan del 9 giugno 2009, ha definito “difficile e deplorevole”, attribuendone le cause, più che alle attività terroristiche islamiste, soprattutto “ai bassi standard di vita, all’elevata disoccupazione, alla corruzione massiccia e orribilmente diffusa, e alla straordinaria inefficienza delle autorità locali”. Un comune destino di instabilità, conflittualità con i paesi vicini e difficoltà nello state building della transizione post sovietica attraversa le terre che separano il mar Nero dal Caspio. Il percorso evolutivo delle realtà che compongono quello che genericamente viene denominato “Caucaso” è tuttavia segnato da diversità e distinzioni marcate. Dal canto suo, il Caucaso meridionale si è risvegliato all’indomani dell’indipendenza con una serie di amare questioni bilaterali riemerse dalla letargia del periodo sovietico. La contesa sul Nagorno Karabakh, le tensioni armeno-turche, le riputetute crisi in Georgia, insieme agli interessi delle potenze regionali, delineano un quadro complesso e dalla difficile composizione, che richiede tuttavia una soluzione urgente e capace di ristabilire un equilibrio regionale ancora oggi di difficile conseguimento.
Etnie, lingue e religioni. Nel Caucaso del sud, tutto e il contrario di tutto si incontra e si scontra da sempre: etnie, lingue e religioni, storia e geografia, geopolitica ed energia. Si tratta di una precaria faglia geopolitica compresa fra Russia, Asia Centrale, Medio Oriente ed Europa, dove la disintegrazione dell’Unione Sovietica ha ampliato i motivi di attrito fra mille diverse componenti. E’ uno straordinario punto di incontro e un crogiuolo di identità etniche molteplici, custodi di una cinquantina di lingue, tant’è vero che gli antichi geografi arabi indicavano l’area con il pittoresco e significativo appellativo di “montagna delle lingue”. Fra i più antichi abitanti dell’area figurano, ad esempio, gli Yuhuro o “ebrei della montagna”, ancora presenti in varie minuscole enclaves, soprattutto nel musulmano Azerbaigian dove storicamente costoro erano gli unici autorizzati a produrre il vino. Armenia e Georgia, poi, sono i primi Stati proclamatisi cristiani, fin dall’inizio del IV secolo. Turchia e Azerbaigian, dal canto loro, sono Paesi islamizzati ma divisi da un’altra linea di frattura interna all’Islam, quella fra Sciiti e Sunniti.
Geografia e storia. Ubicato fra Mar Nero dove confluiscono i bacini fluviali del Danubio, del Dniepr e del Don e il Mar Caspio ricco più di petrolio che di acqua, il Caucaso meridionale è l’estremo lembo dell’Europa, depositario di arcaici miti come quello di Prometeo rapitore della scintilla divina, quello di Giasone alla ricerca del vello d’oro, custode di leggende come quella della Georgia, terra che ai tempi della Creazione Dio intendeva riservare a se stesso, quella del Diluvio universale e dell’arca di Noè che si fermò in cima al monte Ararat. Nel corso dei secoli le popolazioni caucasiche si scontrarono più di quanto si incontrarono, ritagliandosi a forza spazi vitali in contrasto con quelli altrui. Ne scaturirono massacri, genocidi come quello degli Armeni nel 1915, deportazioni di massa come quelle operate da Stalin nei confronti di Circassi, Ingusceti e Ceceni, politiche sovietiche di commistione etnica artificiale nell’intento di “dividere et imperare”. Nella seconda guerra mondiale gli Alpini italiani sembravano inizialmente destinati qui, sulle immense montagne caucasiche per contribuire a placare la sete di petrolio da parte dell’Asse, poi vennero dirottati sul Don con tutto quel che ne seguì. Nell’immediato secondo dopoguerra, reagendo all’occupazione staliniana dell’Europa centro-orientale, la dottrina Truman si adoperò per stabilizzare il “fianco sud” europeo, includendo Italia, Grecia e Turchia nella NATO, alleanza la cui continuazione verso est fu la gemella CENTO fra Turchia, Iraq, Iran e Pakistan (oltre a Stati Uniti e Regno Unito). Il Mar Nero diventò un lago in comproprietà: sovietico a nord e “atlantico” a sud, dove non si giunse allo scontro anche grazie alle disposizioni della Convenzione di Montreux del 1936 sul regime degli Stretti.
La questione armena del 1915 è ancora motivo di tensioni e al tempo stesso di negoziati, prova ne sia la recente mossa del presidente turco Abdullah Gül di tendere la mano al vicino armeno. L’iniziativa è inserita in una più ampia “Caucasus Stability and Cooperation Platform”, proposta da Ankara a livello regionale subito dopo gli eventi bellici in Georgia dell’estate 2008. Con il sostegno americano, l’iniziativa è evoluta, nell’aprile 2009, in una “road map” volta a rafforzare la cooperazione fra entità nazionali che siano veramente sovrane (Mosca, ad esempio, sta esercitando notevoli pressioni e ingerenze su Erevan, anche schierando in Armenia proprie truppe di confine). L’iniziativa, in altri termini, tenderebbe a limitare le intromissioni russe negli affari interni dei Paesi sovrani (un principio che Mosca, a parole, ha sempre sbandierato, unitamente a quello dell’inviolabilità delle frontiere) per evitare il ripetersi dello scippo -manu militari- di intere province altrui come accaduto con l’Ossezia del sud e l’Abkhazia (autoproclamatesi indipendenti e riconosciute finora, a livello planetario, da ben quattro entità di cui due statali: Russia, Nicaragua, Transnistria e (udite udite) Hamas. L’uso sproporzionato della forza in Georgia, oltre a contravvenire ai sacri principi in cui Mosca giurava di credere, ha avvicinato ulteriormente Tblisi alla NATO ed ha evidenziato l’isolamento e la scarsa forza di persuasione russa lungo la propria periferia meridionale e in quello che il Cremlino ritiene il suo “estero vicino”. Mosca, inoltre, si dimostra poco incisiva anche nell’ambito del cosiddetto “gruppo di Minsk”, nel quale siede da anni con Stati Uniti e Francia, nei riguardi dell’annosa crisi armeno-azera sul Nagorno-Karabakh, enclave armena in territorio azero. Sorge il sospetto che le “guerre congelate” in Europa orientale e nel Caucaso rimangano irrisolte deliberatamente da parte del Cremlino. Perdurando l’incapacità del gruppo di Minsk, l’avvio a soluzione della questione del Nagorno-Karabakh potrà passare per Ankara, la cui diplomazia ha l’opportunità da una parte di normalizzare i rapporti con Erevan e dall’altra di rafforzare i legami etnici, linguistici, storici ed energetici con Baku.
Geopolitica ed energia. Collocata fra il mar Nero ed il Caspio, fondamentali per la sicurezza dell’Europa e per il controllo dei traffici che la interessano, la regione del Caucaso si pone tra lo spazio asiatico e quello europeo in qualità di congiunzione tra realtà sempre più complementari e interessate a partnership di lungo periodo. La volontà degli Stati rivieraschi di avvantaggiarsi della ricchezza energetica del Caspio a supporto di un proprio crescente ruolo regionale crea condizioni nuove e prospettive di sempre maggiore affrancamento dal tradizionale rapporto commerciale esclusivo detenuto con Mosca. Infatti, nonostante l’ex madrepatria ambisca tuttora, tramite i propri colossi energetici, a mantenere un certo controllo sui traffici e sulle direttrici che si dipanano sullo spazio ex sovietico, la realtà caucasica appare sempre più interessata a consolidarsi quale garante della sicurezza energetica europea nella duplice veste di fornitore, con l’Azerbaigian, e di transito e hub, con la Georgia e la Turchia, oltre che di ponte naturale con i Paesi rivieraschi della sponda orientale del Caspio. Baku-Tblisi-Ceyan e Baku-Tblisi-Erzurum sono solo alcune delle pipelines di recente costruzione che connettono il sistema del Caspio-Nero con la rete di approvvigionamento europea, rete che, evidentemente, avrebbe tutto da guadagnare qualora il Caucaso meridionale, stabilizzandosi, potesse garantire una definitiva sicurezza sui traffici attuali e potenziali.
Al di là delle recenti iniziative di pacificazione armeno-turca e delle sfortunate prospettive di soluzione per la complessa questione del Nagorno-Karabakh, la necessità di mettere a sistema gli interessi comuni per la realizzazione di finalità di più ampio respiro hanno indotto gli attori caucasici a promuovere la costituzione di organizzazioni regionali fin dal momento dell’indipendenza. Negli anni della transizione, accanto a strumenti cooperativi direttamente successori della precedente esperienza sovietica, quali la Comunità di Stati Indipendenti (CSI) e l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) si sono evoluti nuovi fori di dialogo e confronto, quali il Black Sea Economic Council (BSEC). Tale esperimento unisce fin dal 1992 realtà dell’Europa sud-orientale (quali Albania, Grecia, Moldova, Romania, Serbia, Ucraina e Turchia) con altre pienamente caucasiche (come Armenia e Azerbaigian) e con la Russia, aspirando a realizzare un modello di cooperazione politica ed economica che assicuri all’area del Caucaso-mar Nero-mar Caspio un’unica dimensione di fiducia e di prosperità condivisa, gettando anche le basi per situazioni interessanti di cooperazione con l’Unione Europea. Infatti, tale esperimento di cooperazione regionale che si è andato sviluppando ai propri confini sud orientali non ha lasciato indifferente l’UE, che nel 2007 ha varato la Black Sea Synergy, un’iniziativa proprio a sostegno degli sforzi di quella regione, perché siano produttivi di risultati sensibili negli ambiti economico, politico, della protezione ambientale, del contrasto alla criminalità e ai traffici illeciti. In seguito alla crisi dell’agosto 2008, l’UE (che già nel 2003 aveva nominato un proprio Rappresentante Speciale per il Caucaso) ha ulteriormente affinato i propri strumenti, lanciando una Eastern Partnership rivolta a Bielorussia, Moldova, Ucraina, Georgia, Armenia e Azerbaigian, nella consapevolezza che quanto avviene lungo la propria fascia orientale influenzi direttamente la vita sul territorio dell’Unione. Agli ambiti di cooperazione già contemplati nella Black Sea Synergy, nella Eastern Partnership si aggiungono con maggiore chiarezza anche quelli della good governance, delle riforme, dei contatti people-to people, del contrasto alle disuguaglianze economiche e della sicurezza energetica. Né vanno dimenticate organizzazioni come lo Euro Atlantic Partnership Council (EAPC) che raggruppa i Paesi della Partnership for Peace compresi tutti quelli della regione e l’iniziativa GUAM (dalle iniziali di Georgia, Ucraina, Azerbaijan e Moldova, in realtà GUUAM fino alla fuoriuscita dell’Uzbekistan nel 2005).
In conclusione, l’intera regione dovrebbe ritrovare la sua naturale funzione di crocevia dei flussi umani e dei commerci, di cerniera fra Est e Ovest e fra Nord e Sud, tradizionale ruolo che ha svolto fin dai tempi dell’antica Grecia, poi delle repubbliche marinare ed infine dell’Impero Ottomano. La chiave per aumentare la cooperazione e per limitare la confrontazione sta proprio nel Caucaso meridionale. La stabilità, tuttavia, va ricercata possibilmente insieme con (e non contro) la Russia. A questo proposito Arrigo Levi, profondo conoscitore dell’area, è solito chiedersi: “come possono i Russi non capire che proprio l’adesione di alcune repubbliche ex sovietiche e di alcuni paesi ex satelliti dell’URSS all’Unione Europea e alla NATO, con le rigide regole di comportamento che ciò comporta, ha creato condizioni di assoluta sicurezza per la Russia, mai conosciute prima nella storia, alle sue frontiere occidentali?”. E qui si rafforza il sospetto di cui sopra: e se l’instabilità alle proprie frontiere fosse conveniente per il Cremlino?
In ogni caso, sia la NATO che la UE dovranno riservare maggiore attenzione all’area: se questa sarà stabile, cooperativa e ben governata, ne beneficeranno tutti, Russia compresa.