C’è la regia di Veltroni dietro la crisi del cinema italiano

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C’è la regia di Veltroni dietro la crisi del cinema italiano

C’è la regia di Veltroni dietro la crisi del cinema italiano

09 Settembre 2007

Il Festival di Venezia si è appena concluso con la vittoria di Ang Lee e anche quest’anno ha dimostrato quanto
stretti siano i legami fra cinema, istituzioni e politici di sinistra. Così è
sempre stato dall’epoca dell’egemonia comunista di stampo togliattiano. Ma c’è
un uomo che più di ogni altro è l’emblema di queste liaisons dangereuses: Walter Veltroni. Il sindaco di Roma cominciò
ad occuparsene ancora giovanissimo quando 
veniva considerato il golden boy di Botteghe Oscure. Vantava un diploma
all’istituto tecnico cinematografico e televisivo anche se si nutre qualche
dubbio sulla sua competenza in materia. Un simpatico pignolo di qualità come
Mauro della Porta Raffo si è messo a spulciare le recensioni firmate Veltroni e
ha scoperto decine di errori, alcuni dei quali da principiante. Se non è impeccabile
come critico, l’attuale sindaco di Roma i danni veri al cinema li ha fatti come
politico. Per la verità, quando nella seconda metà degli anni Ottanta cominciò
ad occuparsene, la crisi del settore era già scoppiata da tempo, ma le sue terapie,
lungi dal risolverla, l’hanno peggiorata.

Era ancora all’inizio della sua “irresistibile ascesa”
quando elaborò una strategia fondata su due principi: duro attacco alla
televisione commerciale e a Berlusconi che danneggiava il cinema, e
assistenzialismo statale a piene mani. Il risultato è che lo Stato italiano è
diventato il più grande imprenditore europeo del settore e che i nostri film
hanno perso qualità e mercato. Qualche esempio: in Francia, in Germania, in
Gran Bretagna, per non parlare degli Stati Uniti dove la cinematografia
italiana un tempo ha raggiunto le quote del 10 per cento del mercato, oggi è a
terra: occupa spazi che vanno dallo 0,3 per cento all’1 per cento. In patria il
consumo cinematografico è sceso sotto la media europea: da noi si staccano
circa 110 milioni di biglietti l’anno, contro i 140 milioni della Spagna, che è
meno popolosa, i 184 della Francia e i 175 della Germania.

Una delle cause principali di questa debacle è  la strategia veltroniana. Punto primo: guerra
alle tv commerciale e prima di tutto a Berlusconi. L’inizio fu segnato dal celebre
slogan: “Non s’interrompe un’emozione”. Si tratta della battaglia, persa in
partenza, contro gli spot piazzati in mezzo alla trasmissione televisiva dei
film. Una campagna i cui presupposti teorici si ritrovano nel libro di
Veltroni: Io e Berlusconi (e la Rai). Mentre già è in atto
la sconfitta su tutti i mercati del cinema italiano, il golden boy di Botteghe
Oscure non trova di meglio che prendersela con il piccolo schermo, reo di distruggere
il mondo della celluloide. E siccome è intelligente e soprattutto abile aggrega
intorno a questa guerra alla pubblicità numerosi e qualificati alleati. La
manifestazione del Pci, organizzata all’Eliseo nel 1989, è un successo di
pubblico e di critica: un pienone di registi, attori, sceneggiatori con in
testa il grande Federico Fellini che comunista non lo fu mai. Un risultato che
serve alla carriera politica del giovane Walter, ma non certo al futuro del
cinema italiano che diventa rabbiosanmente nemico della tv commerciale che è
invece una sua possibile grande alleata. Un’alleata alla quale converrebbe fare
un’apertura di credito per poi chiederle un impegno di investimenti nell’ambito
della produzione e nel campo della diffusione dei film italiani. Nulla di tutto
ciò: si va allo scontro con esiti catastrofici.

Rottura col privato dunque e – questo il secondo braccio
della strategia veltroniana – soldi dalla mano pubblica. La prima riforma
scatta nel 1994, durante il governo Ciampi, quando di politica dello spettacolo
si occupa direttamente il premier. La situazione del cinema è drammatica e
viene varata una legge sbagliata (ormai lo riconoscono anche i tecnici più
avveduti del ministero) che concede al settore finanziamenti a fondo perduto.
Veltroni, allora direttore dell’Unità,
è uno dei grandi suggeritori del governo nell’elaborazione del provvedimento.
Nel 1996, da ministro dei Beni culturali, lo ritoccherà per rendere ancora più
facile l’arrivo di danaro pubblico. I risultati sono catastrofici: un sacco di
soldi spesi senza che il cinema ne tragga alcun giovamento. I dati li abbiamo
forniti nella prima puntata di questa inchiesta. Il fatto che a pagare sia il
Tesoro e non un imprenditore privato favorisce poi il dilagare di un pernicioso
strapotere burocratico e sindacale, nonché un lievitare dei costi.A questo
punto Veltroni completa l’opera associando formalmente al suo dicastero tutte
le competenze dello spettacolo: nascerà il ministero dei Beni e delle Attività
culturali. Diminuirà così l’attenzione verso il patrimonio storico e
monumentale del paese e si accrescerà ulteriormente quella verso cinema,
teatro, musica. Varrà la pena ricordare che lo spreco più disinvolto di fondi
pubblici riguarda la lirica che assorbe da sola metà dei fondi statali.

Il disegno veltroniano è così compiuto, da sindaco lo
arricchirà con “le notti bianche” e “la Festa del Cinema” di Roma. Nell’insieme ne esce
un sistema di potere gigantesco che spiega anche perché sia così vasto il
consenso di registi, attori, cantanti verso il centrosinistra. Il tutto a
carico nostro.