C’è un modo per ritrovare le ragioni della politica e dei partiti? Forse sì
08 Agosto 2012
Perché i partiti avrebbero dovuto prendere voti? Mi sembra questa lo domanda più pertinente in questo dopo-amministrative. I titoloni dei giornali, le disfatte, le catastrofi, i “tutti a casa”, quello che si estingue, quell’altro che si scioglie, quello che viene spianato, sono tutta fuffa giornalistica che copre la mancanza di qualsiasi notizia, di qualsiasi sorpresa.
Ripeto: perchè i partiti avrebbero dovuto prendere voti? A parte qualche raro caso in cui è stata premiato un buon amministratore locale, quali altri motivi avrebbe avuto un elettore medio di scegliere il Pdl, il Pd, il terzo polo, la Lega…?
Se il voto fosse davvero un test sul governo e sul comportamento dei partiti in questa ultima fase montiana, il trio Abc avrebbe avuto difficoltà a convincere sia i propri elettori ostili a Monti sia quelli che invece lo sostengono. Non si può votare l’Imu a novembre e metterla credibilmente in discussione alla vigilia del voto; non si può stare con un piede dentro la riforma del lavoro e con l’altro in piazza insieme alla Cgil; non si può pretendere la riforma dell’articolo 18 e poi tacere quando questa non arriva a riguardare i dipendenti pubblici; non si può chiedere ogni giorno sviluppo e crescita, meno tasse, più rimborsi dalla pubblica amministrazione, più esenzioni, più sussidii senza prendersi la responsabilità di sfidare i mercati, lo spread e il default. Per lo stesso motivo non si può lisciare il pelo alle elezioni anticipate a giorni alterni: o si vota la sfiducia al governo o lo si lascia lavorare.
Se poi il voto fosse un giudizio sul comportamento dei partiti rispetto ai loro impegni parlamentari si farebbe ancora più fatica a scegliere di votarli. L’impegno a inizio di legislatura era più o meno questo: “Monti si occupa di adempiere alle richieste della lettera della Bce e della Ue, noi approfittiamo di questa occasione per recuperare credibilità modificando la legge elettorale, mettendo mano alla Costituzione con la riduzione del numero dei parlamentari, la correzione del bicameralismo e qualche altro necessario miglioramento all’efficenza dello Stato. Affronteremo anche il capitolo dei costi della politica, magari con l’abolizione delle provincie e con la revisione del finanziamento pubblico ai partiti”.
Su nessuno di questi temi i partiti hanno fatto passi avanti, almeno visibili ad occhio nudo dagli elettori. Le provincie le hanno abolite gli elettori sardi con un referendum e per il finanziamento pubblico dei partiti è stato chiamato un commissario di governo. Legge elettorale e riforma costituzionale sono ancora materia per esperti o per veggenti.Questo scenario vale per tutti i partiti. Vale per il Pdl che era al governo nel momento della crisi; vale per il Pd che era all’opposizione e non era pronto a prenderne il posto come sarebbe stato normale; vale per il terzo polo che non si sa dov’era. E vale per la Lega che era al governo, poi all’opposizione e poi in Tanzania, in Albania e oggi non è più neppure in Lombardia, nei ballottaggi di Monza o di Como; nemmeno a Cassano Magnago, il paese di Bossi. Certo il Pd tiene più del Pdl, è premiato dalla rassicurante continuità di Bersani oltre che dal riflesso degli elettori di punire in ogni caso chi era al potere. Ma dove vince in modo significativo lo fa con candidati non suoi, avendo perso le primarie o subendo ribaltoni dell’ultimo minuto.
Tolto il caso di revenant alla Leoluca Orlando, vicenda tutta palermitana quindi massimamente oscura, l’unico vero successo è quello di Grillo, ma anche qui, è forse una sorpresa? Il voto verso Grillo non è un voto anti-politico, un voto di pura protesta, non è la fetta di mortadella dentro l’urna elettorale con la scritta “magnateve pure questa”. Il voto per Grillo è in gran parte un voto giovane, di gente appassionata di politica, che segue le vicende del paese attraverso il social network, i blog, internet, che salta completamente l’intermediazione giornalistica tradizionale e allo stesso modo salta l’intermediazione politica. E’ un voto di chi è abituato a scegliere con un click, a cercarsi le sue notizie sulla rete, a vedere con invidia gli altri paesi governati da trentenni. E’ in sintesi un voto che racchiude un capitale di speranza e non di disperazione.
Il problema è che si tratta di una speranza in larga parte malriposta, affidata a un guitto antimoderno, pieno di risentimento e di pulsioni distruttive. Il suo brand vive si assenza, la sua furbizia consiste nel farsi vedere il meno possibile, soprattutto nei talk show televisivi che ormai sono la morte della politica, nel non dare interviste, nel non accettare il confronto. Se i partiti, o meglio, se c’è qualcuno nei partiti in grado di capire e afferrare il senso profondo della speranza racchiusa nel voto a Grillo, se c’è qualcuno capace di non liquidarlo con le vecchie categorie di sempre, quel voto può non essere perduto per sempre.
Ma il segnale resta chiaro: non è vero che c’è bisogno di minore personalizzazione del voto, semmai il contrario. Il declino dei partiti non si combatte proporzionalizzandolo, stemperandolo un tanto ciascuno. Ma lo si supera cercando di massimizzare il potere di scelta degli elettori sulle persone e sui governi. Il cantiere della riforma elettorale, se ce n’è uno ancora aperto e funzionante, dovrebbe rimettere in discussione quanto fatto finora e guardare all’esperienza francese: maggioritario a doppio turno, meglio se con presidenzialismo. E’ l’unico modo per trasformare gli anemici partiti italiani ancora “di governo” in candidati capaci di raccogliere il voto personale degli elettori. Rimettiamo al centro le persone, i candidati, ricostruiamo la fiducia intorno ai leader. I partiti seguiranno.