Celentano e la bicicletta

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Celentano e la bicicletta

Celentano e la bicicletta

27 Marzo 2011

Tutti noi siamo stati bambini, tutti noi siamo saliti su una biciclettina, siamo caduti, ci siamo sbucciati e qualche volta rotti, ma sempre qualche zio o cugino ci ha rimessi in sella, fino a che, a forza di capitomboli, abbiamo imparato a pedalare. Nessuno ci ha mai detto, né noi abbiamo mai pensato di buttare via la bicicletta perché era troppo pericolosa.

Siamo convinti che lo stesso valga per tutte le novità nella storia dell’uomo, dalla ruota all’atomo. Non c’è nessun bisogno di scartarle solo perché ci fanno paura. Basta imparare a pedalare.

Adesso possiamo agganciarci al pretesto musicale (quasi obbligatorio per questa rubrica): Adriano Celentano.

Noi consideriamo Celentano, dopo averlo visto per la prima volta esattamente mezzo secolo fa alla Bussola di Viareggio, uno di quegli artisti a cui la sorte ha regalato, oltre a molti altri talenti, una presenza scenica superlativa. Fin da allora bastava che lui apparisse, e il palco era suo. Per non dire di come cantava e si muoveva. Ammirazione sconfinata da parte nostra (e di milioni di italiani).

Però, quando si mette a fare il socioteologo, e si espande nella sua comunicazione da (definizione sua) ignorante, oppure (definizione nostra) buonista new age, allora ci sarebbe da invocare un misericordioso silenzio. Veniamo al dunque. Un dunque naturalmente fatto di terremoto, tzunami e fughe radioattive. Insomma il problema di attualità (comunque, se non è questo, ce n’è sempre un altro pronto).

E’ una lettera di Adriano pubblicata a tutta pagina (mezza bastava) dal Corriere della Sera il 16 marzo. In ogni riga, con molte parole gridate in stampatello ci ripete le sue pappardelle vecchieggianti contro il cemento, l’energia atomica, la sfida dell’uomo alla natura. Insomma, contro il nuovo.

A noi non fa paura il nucleare, a noi fa paura la paura del nuovo. Certo che il nuovo può essere pericoloso, e anche brutto. Ma si può imparare a controllarlo e a migliorarlo. E non rifiutarlo, come è avvenuto nel (citato da Celentano) referendum di 24 anni fa in cui si è chiesta l’opinione di persone  incompetenti (come siamo ancora quasi tutti noi) sull’energia atomica, un argomento sconosciuto, allora come adesso, e la risposta è stata un no emotivo e non certo ragionato.

Per noi il vero pericolo è il vecchio che blocca il nuovo, uno stendardo sventolato da chi cavalca l’emozione, e invoca la natura la quale, personificata, “sta perdendo la pazienza” (sempre Adriano C.) con noi umani, neanche fosse una tata, buona con i suoi bambini finché siamo obbedienti, ma che si arrabbia appena uno esce dalla fila.

Certo, la catastrofe naturale può mandare all’aria tutto, centrali atomiche comprese, ma è un evento che non dipende da noi, non si può prevedere, e contro il quale poche sono le difese, di certo non la predicata rinuncia alla tecnologia (dovremmo fare come gli Amish?). Meno cose da distruggere ci sono e meno danni si fanno, questo è sicuro. Ma ragionando così, a che punto della storia avremmo dovuto fermarci? All’ottocento, al medio evo, all’antica Roma?

E’ chiaro che se anche i nostri bisnonni cavernicoli l’avessero pensata in questo modo, noi staremmo ancora a mangiare topi crudi, perché il fuoco, ah, è il demonio, ci distruggerà tutti. E invece, come sappiamo, oltre a darci l’acqua calda per lavarci ed eliminare pidocchi e cimici, ci regala altre amenità che ci fanno campare il triplo dei bisnonni di cui sopra, e soprattutto ci permette di preparare squisiti manicaretti.

Basta imparare a pedalare, e la bicicletta non fa più paura.

Detto quanto sopra, non vogliamo privarvi del seguente istruttivo episodio.

Tokyo. Zubin Mehta in tournee con l’orchestra e il coro del Maggio Musicale Fiorentino, prima, durante e dopo il terremoto. Erano lì per una serie di concerti commemorativi dei 150 anni dell’Unità. Quindi non un giro normale, ma un’occasione speciale. Prevedibilmente, con il consueto coraggio e serietà professionale, al primo accenno di psicosi da radiazioni, aiuto! i nostri eroi hanno prontamente tagliato la corda e sono tornati da mammà (il coro, non l’orchestra). E’ il maestro stesso che dichiara: (non ci inventiamo niente, è un’intervista pubblicata su Repubblica del 20 marzo, pag.15) “Io non sarei mai scappato da Tokyo, come ha fatto il coro. L’orchestra invece ha scelto di restare, ma se fosse partita avrei suonato con i giapponesi.”

La solita bella figura.

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L’archivio del Cavalier Serpente, o meglio la covata di tutte le sue uova avvelenate, sta al caldo nel suo blog. Per andare a visitarlo basta un click su questo link: http://blog.libero.it/torossi