Cellule staminali cordonali: serve chiarezza etica e giuridica

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Cellule staminali cordonali: serve chiarezza etica e giuridica

Cellule staminali cordonali: serve chiarezza etica e giuridica

31 Luglio 2007

Il ministro della Salute Livia Turco ha detto ancora “no”
all’istituzione di biobanche private per la conservazione di cellule staminali
prelevate dal cordone ombelicale: nonostante una direttiva europea regoli il
funzionamento di biobanche private per questo scopo, il ministro Turco ritiene
che in Italia queste cellule staminali debbano essere conservate solamente in
strutture pubbliche.

Non è una decisione marginale. La raccolta e la conservazione delle
cellule staminali contenute nel cordone ombelicale costituiscono un fenomeno in
espansione, sia in Italia che nel resto d’Europa, cui il pubblico guarda con
favore in considerazione delle applicazioni terapeutiche attese da tali tipi di
cellule. L’utilizzo di cellule staminali cordonali, inoltre, costituisce un
tema bio-politicamente corretto: crea larghe intese, non divide. Ma, forse
proprio per questo, apre la strada ad una biogiuridica assai scivolosa. La
disciplina della raccolta, della conservazione e dell’utilizzo delle cellule
staminali cordonali, infatti, circoscrive nell’ambito di fatti meramente
normativi la soluzione di problematiche complesse e controverse, quali la
sperimentazione sull’uomo e il valore della corporeità umana, escludendo nella
realtà l’etica da scelte che rivestono una fondamentale rilevanza collettiva.

Vediamo come.

L’istituzione di biobanche di cellule staminali cordonali forma oggetto
di numerosi interventi normativi, sia sul piano nazionale che comunitario, e ha
assunto una pregnante rilevanza biogiuridica. Sul piano nazionale, le misure in
materia di cellule staminali cordonali sono dettate dall’ordinanza del Ministro
della Salute del 4 maggio 2007 (nel prosieguo: ordinanza Turco), che ribadisce,
non senza modifiche di una certa rilevanza, la disciplina introdotta
dall’ordinanza del 30 dicembre 2002 (nel prosieguo: ordinanza Sirchia), più
volte reiterata. Peraltro, la materia ricade nell’ambito di applicazione della
direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio n. 2004/23 sulla “definizione
di norme di qualità e di sicurezza per la donazione, l’approvvigionamento, il
controllo, la lavorazione, la conservazione, lo stoccaggio e la distribuzione
di tessuti e cellule umani”. La materia, quindi, è destinata ad essere
interessata dalla normativa di recepimento della direttiva medesima.

In questa prospettiva, è opportuno fare chiarezza su alcuni aspetti
problematici della questione in esame, tenuto conto della mutata sensibilità
dell’opinione pubblica sull’argomento e della accresciuta consapevolezza delle
ricadute, anche economiche, derivanti dall’eventuale apertura di biobanche
private, come è accaduto recentemente in Svizzera e San Marino.

Il primo aspetto problematico, comune a tutte le questioni bioetiche, è
quello di natura scientifica. La conservazione del sangue cordonale presenta
un’efficacia ancora incerta, essenzialmente in ragione della difficoltà di
conservare inalterate nel tempo le potenzialità delle cellule staminali in esso
contenute. Eppure, la conservazione, in specie per uso autologo (e cioè a
beneficio della stessa persona da cui le cellule sono prelevate), ha incontrato
un diffuso sostegno mediatico, evidentemente perché evoca la possibilità di
realizzare interventi terapeutici “sicuri”, in quanto fondati sull’utilizzo di
materiale biologico personale e, quindi, compatibile.

Altro aspetto problematico è quello semantico. E’ infatti evidente che
il termine “donazione”, che tanto favore incontra da parte dei media, è
improprio, se usato con riferimento alla conservazione autologa. La “donazione”
di cellule staminali cordonali potrà avvenire solo nel contesto della conservazione
allogenica (cioè quella realizzata a beneficio di persone diverse da quella da
cui le cellule sono prelevate) ed a condizione che tale conservazione sia
finalizzata a scopi solidaristici.

Un ulteriore profilo problematico è costituito dalla
strumentalizzazione politica e normativa degli aspetti scientifici e semantici
poc’anzi evidenziati. Pochi commentatori ricordano che l’ordinanza Sirchia
consentiva espressamente la conservazione ad uso autologo delle cellule
staminali derivate dal sangue cordonale, nonché la conservazione di tali
cellule a beneficio di consanguinei affetti da patologie sensibili (art. 1,
comma 3). L’ordinanza Turco, diversamente, autorizza la conservazione
allogenica per fini solidaristici (art. 2, comma 2); la conservazione per uso
dedicato al neonato o al consanguineo affetto da patologia sensibile (art. 2,
comma 3); e la conservazione per uso dedicato nel caso di famiglie ad alto
rischio di trasmissione di malattie geneticamente determinate (art. 2, comma
4). Per quanto riguarda la conservazione a scopo autologo, l’ordinanza Turco
rinvia espressamente a futuri provvedimenti legislativi (art. 2, comma 5).

Né l’una né l’altra ordinanza hanno affrontato un aspetto centrale, e
cioè quello relativo all’individuazione del soggetto cui ricondurre la
disponibilità del sangue cordonale: a chi appartiene il cordone ombelicale?
L’ordinanza Turco (art. 2, comma 2), in proposito, si limita a rinviare
all’art. 3, comma 3, della legge n. 219 del 2005, sulle attività trasfusionali
e gli emoderivati, che attribuisce alla donna il ruolo di donatore del sangue
cordonale, previa espressione del consenso informato ed accertamento
dell’idoneità fisica. Tuttavia, se è vero che è la donna a dare il proprio
consenso per la donazione del cordone ombelicale, è pur vero che il Dna delle
cellule del cordone è quello del bambino. L’individuazione del soggetto cui
ricondurre la disponibilità del sangue cordonale si rivela determinate sia ai
fini della qualificazione autologa o allogenica della conservazione delle
cellule staminali cordonali, che dell’eventuale attribuzione di oneri
economici; sembra pacifico, infatti, che i costi della conservazione dovrebbero
gravare solo sul soggetto che chiede per sé la conservazione del sangue
cordonale.

Questi aspetti dovranno essere disciplinati con maggiore coerenza
sistemica in sede di recepimento della direttiva comunitaria sulle biobanche di
cellule umane, che costituirà anche l’occasione per chiarire l’ambito di
applicazione della normativa sul sangue e gli emoderivati. Infatti, l’ordinanza
Turco richiama espressamente la legge n. 219/2005, che regola nel suo ambito
anche le cellule staminali cordonali, mentre la direttiva n. 2004/23 esclude
dal proprio ambito di applicazione il sangue ed i suoi prodotti, ad eccezione
delle cellule staminali cordonali. La differenza non è di poco conto: la
normativa italiana si applica sia al sangue ed agli emoderivati che alle
cellule cordonali, e assoggetta queste ultime al principio della donazione
libera, volontaria e gratuita valido per il sangue; la direttiva comunitaria,
invece, si applica alle cellule cordonali, ma non al sangue ed ai suoi prodotti,
e prevede la possibilità di ‘donazioni retribuite’ di cellule cordonali.

E’ poi praticamente inevitabile che il recepimento della direttiva
comunitaria incida sulla riserva normativa, introdotta dall’ordinanza Sirchia e
confermata dall’ordinanza Turco, in favore delle strutture sanitarie pubbliche,
le sole autorizzate alla conservazione di sangue cordonale. E’ infatti evidente
che il monopolio pubblico si rileva incompatibile con le norme comunitarie
sulla concorrenza, la libera prestazione dei servizi ed il mercato interno. La
futura disciplina italiana potrebbe allora orientarsi verso un regime misto,
una specie di “intramoenia” della conservazione del sangue cordonale, salvo
l’eventuale accreditamento di strutture private assoggettate ad un regime di
efficace controllo pubblico.

Occorre tuttavia ricordare che la direttiva comunitaria, coerentemente
con gli scopi mercantilistici della Comunità europea, si muove nel senso della
creazione di un mercato comune di cellule e tessuti umani. Scorrendo la
direttiva emerge, fin dal preambolo, il tentativo di comporre problemi e conflitti
morali sulla scorta di modelli organizzativi e gestionali apparentemente
neutrali (“la direttiva non dovrebbe interferire con le decisioni degli Stati
relative all’uso di particolari tipi di cellule umane”), mantenendo separati i
profili tecnologici da quelli giuridici e morali (“la direttiva non
dovrebbe interferire con le disposizioni nazionali che definiscono il termine
giuridico di persona o individuo”). Non stupisce, quindi, che l’atto
comunitario preveda, come detto poc’anzi, la possibilità di accordare
“indennità” per la donazione di cellule e tessuti, che si estendano anche agli
“inconvenienti” sofferti dai donatori. L’esplicita previsione di indennizzi
pecuniari in favore dei c.d. donatori costituisce uno degli snodi più critici
della direttiva; potrebbero, infatti, configurarsi ipotesi di
commercializzazione di cellule umane, come già accade in alcuni Paesi europei
per le cellule riproduttive. Ciò, oltre a vanificare il principio della donazione gratuita e volontaria, richiamato dalla
direttiva, contravverrebbe anche al divieto, sancito dalla Convenzione
di Oviedo sulla biomedicina, di ricavare profitto dal corpo umano.

Nella prospettiva delle innovazioni conseguenti al recepimento della
direttiva comunitaria è quindi necessario fissare almeno i seguenti punti
fermi: l’utilizzo delle cellule staminali cordonali può essere esteso a persone
diverse da quelle da cui sono prelevate a condizione che tale utilizzo rispetti
il divieto di ricavare profitto dal corpo umano o dalle sue parti; la raccolta
e la conservazione delle cellule staminali cordonali, se autorizzate presso
strutture private, devono essere sottoposte ad un regime di autorizzazioni che
consenta l’effettivo esercizio delle forme di controllo pubblico previste dalla
direttiva comunitaria; l’indennità eventualmente prevista in favore dei
donatori deve essere riferita al rimborso delle spese sostenute per la
donazione. Gioverebbe, infine, la predisposizione di idonei strumenti di
informazione del pubblico non specialistico in ordine alle realistiche
applicazioni terapeutiche, confortate dagli sviluppi delle conoscenze
scientifiche, delle cellule staminali derivate da cordone ombelicale, nonché la
creazione di effettive possibilità per i cittadini di accedere alle “biobanche”
anche mediante la razionale distribuzione sul territorio di tali strutture.

 
(*) Luca Marini, docente di diritto internazionale alla Sapienza di
Roma, è presidente del Centro di studi biogiuridici ECSEL, vice presidente del
Comitato Nazionale per la
Bioetica e delegato italiano al Forum dei Comitati etici
dell’Unione europea.