Cento giorni dopo in Iran la rivoluzione non dorme

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Cento giorni dopo in Iran la rivoluzione non dorme

Cento giorni dopo in Iran la rivoluzione non dorme

26 Dicembre 2022

Cento giorni dopo in Iran si scopre che nelle galere di Evin c’è anche Vida Movahed, la ‘ragazza di Enghelab Street’ che sventolava il velo in faccia ai clericofascisti. Vida in carcere c’è già finita due volte perché l’hijab proprio non vuole metterselo. Condannata per “incoraggiamento alla prostituzione e alla corruzione”. Intanto la seconda rivoluzione iraniana, quella contro i mullah che presero il potere nel ’79, continua.

Iran Human Rights continua ad aggiornare l’elenco delle centinaia di morti ammazzati e delle migliaia di arrestati. I condannati a morte con impiccagione già eseguita sono due, Mohsen Shekari e Majid Reza Rahnavard, avevano poco più di vent’anni. Ammazzati per aver “fatto la guerra a dio”. Fino ad ora però il regime ha ottenuto come unico risultato quello di rinsaldare le diverse anime della opposizione al clero sciita, giovani e donne, universitari, minoranze curde e baluci, ceti produttivi stremati da crisi e sanzioni.

A differenza del passato chi si ribella sembra aver maturato la convinzione che la repubblica islamica così com’è, una teocrazia religiosa, è irriformabile. Il sistema di potere in Iran somiglia sempre di più al vecchio Politburo sovietico. Anche quando al potere vanno i vari e presunti moderati come Khatami, Moussavi o Rohani, i tentativi di cambiamento dall’interno falliscono. La firma nel 2015 dell’accordo sul nucleare iraniano, voluta da Rohani, si è rivelata una presa in giro.

Gli iraniani non vogliono negoziare anzi rivendicano di mandare droni ai russi per bombardare la Ucraina. Insomma cresce la consapevolezza, come in Russia, che non c’è altra strada se non cambiare regime una volta per tutte. La elezione del presidente Raisi ha mostrato che gli apparati non si arrenderanno facilmente e sbarrano la strada a qualsiasi tentativo di cambiamento, come quello dell’ex presidente del Parlamento Larijani di candidarsi alle elezioni.

Raisi ha preso 18 milioni di voti, Rohani ne aveva presi quasi 24 nel 2017. Astensionismo e sfiducia verso il voto la dicono lunga sullo scollamento tra popolo ed elite. Raisi si è rimangiato la promessa di eliminare un organo medievale come la Polizia della morale, quella che ha fatto fuori la ventiduenne curda Mahsa Amini. Il regime ha imboccato la strada del terrore interno, dunque, dopo aver sponsorizzato per anni quello esterno.

Processi farsa, esecuzioni capitali, stupri, torture, desaparecidos. Ma la paura alimenta la ribellione invece di sedarla. Tant’è che si comincia a profilare la possibilità che i pasdaran, i militari della Guardia rivoluzionaria, mettano nel congelatore i mullah. La fine dell’era Khamenei, che ha ormai 83 anni, potrebbe cambiare gli equilibri interni del potere nella Repubblica islamica. Il generale Soleimani, ucciso in un raid Usa ordinato dal presidente Trump nel gennaio del 2020, coltivava schemi di questo tipo. La antica Persia è comunque in declino, il covid, le sanzioni, la crisi economica globale l’hanno trasformata in un regime autarchico.

Il valore del real iraniano dal 2018 è crollato. Allora servivano 65mila real per avere un dollaro. Ora ne servono 380mila. La gente inizia a ritirare soldi dalle banche, una spia del default che si avvicina. I mullah non riescono neanche più a pagare i sussidi, come certificato dalla banca di stato. Ieri è arrivato l’appello di Papa Francesco a fermare la violenza. Violenza che continuerà perché il regime ormai ha imboccato il tunnel della repressione, non da oggi purtroppo. Nelle cancellerie occidentali nessuno fa cenno a dare la spallata al regime. Cento giorni dopo, la rivoluzione in Iran non dorme.