Cercasi nuovi leader per scacciare i vecchi demoni dell’Europa

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Cercasi nuovi leader per scacciare i vecchi demoni dell’Europa

25 Febbraio 2009

Ai tempi di George W. Bush, talvolta i funzionari statunitensi indulgevano nello sfottere la propensione europea a risolvere qualsiasi cosa con una riunione al vertice. L’America ha la capacità e il coraggio di prendere delle decisioni, spiegavano ai visitatori che si recavano a Washington. La cosa migliore che i suoi alleati sapevano fare, invece, era ancora una volta un interminabile meeting.

Io reagivo pensando che, spesso, è meglio riunirsi attorno a un tavolo piuttosto che iniziare un’altra guerra. L’Europa l’ha imparato a sue spese durante la prima metà del XX secolo. Le istituzioni dell’Unione Europea, e le interminabili riunioni a cui hanno dato vita, hanno anche costituito il modo grazie al quale l’Europa è riuscita a liberare il continente da un rovinoso nazionalismo.

La mia convinzione si è rafforzata passando in rassegna quel relitto che è ormai la politica estera degli anni di Bush. Scommetto che Dick Cheney, Donald Rumsfeld e il resto di quella “gang unilateralista” rimpiangono segretamente di non aver convocato a suo tempo una riunione, anche solo per riflettere su che cosa si sarebbe dovuto fare dopo l’invasione dell’Iraq.

Eppure, nonostante tutto, c’è del vero nelle critiche rivolte all’Europa. Gli americani non valutarono correttamente le implicazioni della caduta del comunismo. Ma hanno sbagliato anche gli europei. A volte la risposta sta nell’azione, come l’Europa avrebbe dovuto capire in occasione della crisi jugoslava. L’azione richiede leadership, come del resto sanno bene i fondatori dell’Unione. Il problema è che manca la volontà politica di avere una leadership. E in sua assenza, stanno tornando i demoni del nazionalismo.

C’è stato un momento, lo scorso autunno, quando le banche mondiali erano sull’orlo del precipizio, in cui pensai che i governi europei avrebbero compreso la sfida. Curiosamente, la stretta del credito sembrava essere stata pensata proprio per l’Unione europea, offrendole l’opportunità di mostrare la forza che era nata dalla fusione dei singoli interessi nazionali.

La velocità con cui la crisi si è diffusa testimonia l’inestricabile interconnessione delle economie nazionali, ma anche il fallimento della politica nel tenere il passo con tale integrazione. Qual era la ragione fondante dell’Europa unita, se non quella di gestire questa interdipendenza? In quel momento, l’Unione avrebbe potuto offrire al mondo l’esempio dei vantaggi che si ottengono da una risposta comune.

Il francese Nicolas Sarkozy, allora presidente del Consiglio europeo, sembrava d’accordo. La crisi era etichettata “made in America”, la soluzione avrebbe portato il simbolo dell’Europa. Sarkozy promise di agire. I mesi successivi, invece, hanno segnato il ritorno del nazionalismo. La crisi in atto ci ricorda che l’economia è un fatto planetario ma che anche in questa Europa postmoderna la politica resta radicata negli stati nazionali. Le grandi dichiarazioni di solidarietà sono state messe da parte da politiche modellate sulle pressioni nazionali.

Il più lampante esempio di questo nuovo nazionalismo economico è arrivato proprio da Sarkozy, che qualche giorno fa ha punito le case automobilistiche francesi per avere aperto degli stabilimenti nella Repubblica ceca. Alcuni di noi si sono chiesti che cosa mai è accaduto al mercato comune europeo? La dura risposta di Mirek Topolanek, il primo ministro ceco e, per coincidenza, successore di Sarkozy alla presidenza del Consiglio europeo, ha rievocato gli scenari degli anni Trenta. A Praga non hanno dimenticato che la Francia li abbandonò nel 1938.

Sarkozy non era solo nella sua miopia. Per mesi la tedesca Angela Merkel ha agito come se la crisi fosse una cosa di poco conto, in ogni caso un problema che riguardava principalmente le economie d’assalto tipiche del capitalismo ultraliberista angloamericano. Le nazioni virtuose come la Germania avevano mantenuto la propria economia in buono stato, e ne sarebbero uscite relativamente indenni. Con la produzione tedesca in netto calo come conseguenza del crollo della domanda che si è avuto altrove, la signora Merkel ha ricevuto la sua lezione personale di economia globale.

Da parte sua, l’inglese Gordon Brown ha trattato la Ue talvolta come un’utile, ma più spesso irritante camera parlamentare tra la Gran Bretagna e il mercato globale. Tanto da sprecarsi solo in rare occasioni in promesse, peraltro finite nel vuoto, di appoggio alle ambizioni europee. Adesso invece, con le banche europee che si trincerano entro i confini nazionali, Brown si affanna a mettere in guardia dai pericoli insiti nel nazionalismo finanziario. Per poi chiedere alle banche londinesi come osino concedere prestiti all’estero quando le imprese inglesi sono affamate di finanziamenti.

José Manuel Barroso, il presidente della Commissione europea, ha dichiarato che il risorgere del nazionalismo economico non è un problema soltanto europeo. Ha ragione. Il protezionismo sta risorgendo ovunque, da Washington a Nuova Delhi. Certo, se l’Europa, con la sua profonda esperienza di interessi condivisi, non riesce a resistere a questa deriva, come ci si può aspettare che altri mantengano aperti i propri mercati? Barroso, mi immagino, condivide questo punto di vista. Ma è stato messo da parte dagli interessi nazionali.

Non mi metto tra quelli che credono che la recessione globale sia necessariamente il preludio all’apocalisse economica e sociale. Ho resistito alla tentazione di riempirmi la dispensa di cibo in scatola e bottiglie d’acqua. La guerra tra stati europei è un’ipotesi ancora più remota. La maggior parte di loro non ha più forze armate proprie, e quelli che ancora le hanno non vogliono che i loro soldati escano la sera.

In ogni caso, le preoccupazioni sono reali. Gli impulsi protezionistici che attraversano il continente – dalla protesta contro i lavoratori stranieri in Gran Bretagna alla campagna parigina del “comprate francese” – costituiscono un monito sul perché una generazione di leader lungimiranti decise che pace e prosperità dovevano essere inserite in una cornice istituzionale di cooperazione.

Con il peggiorare della recessione, il rischio adesso è che si crei una spirale che autoalimenti le turbolenze popolari: che una mossa difensiva di qua soffi sul fuoco del nazionalismo di là; che il mercato comune si frantumi. Le nuove democrazie dell’Unione nell’Europa centrale e orientale sono particolarmente vulnerabili. Davvero Sarkozy vuole disfare l’allargamento, creando una nuova frattura che ricalchi quella cancellata dal crollo del comunismo?

I politici europei vogliono essere ascoltati sul proscenio mondiale. Per Brown, nulla è più importante dell’imminente G-20 che si terrà a Londra. Eppure qual è la credibilità di Brown, o di qualunque altro leader europeo, in mezzo alla cacofonia di posizioni discordanti che attraversano il continente?

I leader europei hanno fissato diverse riunioni tra di loro, che si terranno nelle prossime settimane. In questo modo viene offerta l’occasione di ristabilire una parvenza di solidarietà. Ma qualche volta, i vertici non sono abbastanza. Ciò di cui abbiamo bisogno da Sarkozy, Brown e Angela Merkel è la capacità politica di riconoscere che, se non s’impiccheranno insieme, molto probabilmente finiranno con l’impiccarsi ognuno per conto proprio.

Quest’ultima ultima frase è una citazione dal discorso di Benjamin Franklin per esortare i rappresentanti dei nascenti Stati Uniti a ratificare la dichiarazione d’indipendenza: “Gentlemen, if we do not hang together, we will most certainly hang separately”.

Tratto da “Financial Times Online”

Traduzione di Enrico De Simone