Cercasi splendidi quarantenni per nuovo miracolo economico
29 Giugno 2011
Se uno va a leggersi l’inchiesta dell’Economist su "L’uomo che ha fottuto un intero Paese" fa una grossa scoperta. Il senso del lungo articolo infatti è un altro: gli italiani si sono fottuti da soli. Dopo il boom ci siamo fermati, vivendo della luce riflessa del miracolo enomico, e potremmo decidere di andare avanti così "diventando sempre più poveri e anziani" ma passandocela tutto sommato "abbastanza bene". L’alternativa, suggeriscono gli inglesi, è "un altro Risorgimento come quello che, 150 anni fa, condusse all’unificazione". Un po’ retorico ma sicuramente funzionale. Per riuscirci bisogna puntare sui giovani e l’Italia non lo fa. Non ci voleva il genio britannico per scoprirlo e c’è da dire che la fotografia scattata dal giornale inglese rischia di evidenziare solo dei problemi sovrastrutturali (un paese vecchio che non dà spazio alle nuove generazioni, un sistema dove le raccomandazioni prevalgono sulla meritocrazia, in cui il welfare familista sarà pure immorale ma fa tirare a campare), problemi che naturalmente incidono in modo negativo sull’occupazione, la questione giovanile o il ricambio generazionale ma nascondono un blocco strutturale più profondo: la mancata riforma del mercato del lavoro e i ritardi nella nostra offerta formativa.
L’Economist promuove le scuole inferiori ed elementari italiane, ha qualche dubbio sui licei e le superiori, ma boccia senza appello il sistema universitario. La notizia, però, è che gli inglesi ritengono Mariastella Gelmini un buon ministro ("è consapevole dei difetti del sistema e sta cercando di modificarlo"). Vengono lodati, nell’ordine, il suo test unico per le superiori ("E’ incoraggiante sapere che le prime prove sono state criticate perché considerate troppo difficili"), così come il previsto collegamento delle prestazioni degli insegnanti al rendimento degli studenti che influirà sui nuovi contratti. Ma il meglio di sé l’Economist lo dà sull’università italiana, scagliandosi contro le parentopoli (33 casi in cui rettori e presidi hanno piazzato figli, generi e coniugi nelle cattedre pubbliche), contro la proliferazione di materie inutili che servono solo a creare altre cattedre, contro la inamovibilità dei ricercatori e dei professori dettata dalla logica della cooptazione (su 40 concorsi nazionali si è scoperto che il 70 per cento dei posti era stato assegnato a docenti che erano già ricercatori nell’università che aveva indetto il concorso). Qualsiasi tentativo di cambiamento venga introdotto – la selezione dei ricercatori, l’aumento di competitività che fa scattare maggiori finanziamenti pubblici, l’apertura alle docenze esterne, i singulti di una privatizzazione del sistema – viene contrastato fino a svuotarlo di senso: "Come spesso accade in Italia, quando cambiano le regole del gioco il comportamento degli interessati cambia solo quel tanto che basta per permettere a tutti di continuare come prima".
Si potrebbero fare certamente molte obiezioni sensate a questa parte dell’inchiesta dell’Economist e va detto che qui da noi chi si oppone alla Legge Gelmini spesso lo fa non perché mosso da un rigurgito conservatore bensì dal timore che a pagare poi saranno solo alcuni, i giovani e i "giovani vecchi" (abbiamo ricercatori quarantenni "in rottamazione"), mentre altri resteranno inamovibili al loro posto. Ma ancora una volta, l’impressione è che a fottere l’Italia siano stati gli italiani, che hanno involontariamente fregato i loro figli illudendosi che una laurea, il "pezzo di carta", sarebbe bastata per colmare il gap generazionale (si vedano le interessanti pagine di Daniela Coli sull’argomento). La verità è che "il governo trasferisce denaro dai giovani agli anziani," spiega l’Economist, "spendendo in pensioni il 14 per cento del pil, una percentuale più alte di qualsiasi altro paese Ocse". Il giornale, in conclusione, riassume i problemi sul tavolo ma non si sbilancia sul futuro delle riforme messe in campo negli ultimi anni. Sembra che tireremo a campare fino a quando si potrà, poi si vedrà. Ma non basta idealizzare i trentenni rampanti, manager, professori e avvocati, che quando hanno pregustato l’ariamara che si respirava in patria hanno fatto le valigie e sono andati all’estero. Saranno anche bravissimi a guadagnare dieci volte i loro coetanei rimasti a casa, ma questo continuo lamentarsi sul fallimento italiano, la boria poliglotta che acquistano su tutto lo scibile italico, quell’aria altezzosa alla Severgnini (vedi l’editoriale di ieri sul Corsera, tutto e niente), deve farci riflettere su quali sono oggi le forze rimaste in campo in Italia per permettere un cambiamento sistemico radicale.
Bene, quelle forze sono tra noi, siamo noi. In Italia c’è una generazione di quarantenni, di seconde linee che mandano avanti la baracca senza chiedere mai e con le spalle robuste. Questa generazione è già stata fottuta: dal divario troppo grande fra "garantiti" (non troppo) e "flessibili" (affatto), dalla sparizione improvvisata del welfare (viene da dire meno male visti i danni), dalla mancanza di paracadute (li chiamano così ma non si aprono). E’ gente che va studiata. Perché a differenza dei loro nonni non ha fatto la guerra, a differenza dei loro padri non ha fatto il boom, a differenza dei fratelli maggiori non si è fatta spazio nel Palazzo dopo averlo rovesciato tra il ’68 e il ’77. E’ gente diversa. Che ha imparato a muoversi sul mercato con scaltrezza e realismo. Il vero "risorgimento" dovrebbe avvenire in questa generazione di mezzo, ma non riguarda tanto essa quanto le successive. Solo se i fratelli più grandi penseranno a quelli più piccoli, agli under 25 cocciuti che ancora rimangono in Italia, nelle loro città universitarie e nei loro paesi di provincia, solo così, con un atto di solidarietà generazionale, tra dieci o vent’anni non saremo "fottuti" ma ancora nel concerto delle potenze.