Chavez, Kim Jong-il, Ahmadinejad e il desiderio di umiliare l’Occidente

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Chavez, Kim Jong-il, Ahmadinejad e il desiderio di umiliare l’Occidente

15 Giugno 2009

Quale orribile risultato. Mettiamo pure che i brogli elettorali riducano la proporzione della vittoria di Ahmadinejad, mettiamo anche che gli scontri a Teheran possano modificare o condizionare la leadership iraniana. È molto difficile tuttavia evitare il pensiero che le preferenze per il futuro, ed anche ex, presidente iraniano, sono il doppio di quelle per Hossein Moussavi, la pallida stella di un cambiamento che tuttavia avrebbe avuto un carattere interno.

È anche interessante, e denota il consueto ottimismo pacifista, che la stampa di tutto il mondo e i vari leader mondiali abbiano seguitato a immaginare che Moussavi potesse vincere, nonostante fosse facile prevedere la vittoria di Ahmadinejad: il supremo ayatollah Khamenei, tutta la classe dirigente della Repubblica islamica hanno rinnovato semplicemente la scelta fatta a suo tempo, nel 2005, per l’uomo che avrebbe raddrizzato l’Iran dopo otto anni di tentennamenti del riformista Khatami. Khamenei, che durante la campagna ha tenuto un atteggiamento da Sibilla Cumana, tuttavia alla fine l’ha detto chiaramente: «Noi siamo favorevoli al candidato più capace di contrapporsi all’Occidente».

L’ha detto dopo il lancio del missile Sejil 2, duemila chilometri di gittata, fino a Tel Aviv o in Europa, e dopo che Ahamdinejad ha festeggiato le 7.000 centrifughe atomiche. Stavolta il gioco della scelta preordinata si è ripetuto all’ennesima potenza: non si è badato a spese neppure nella messa in scena della farsa della democrazia iraniana, perché si sapeva che Obama sedeva con un sorriso accattivante nella prima fila della platea. Così, il regime ha messo in scena una percentuale straordinaria di votanti, basandosi anche cinicamente sul desiderio di cambiamento affinché la porta sbattuta di fronte alla richiesta di colloquiare sul nucleare con gli Usa facesse un rumore assordante.

Il regime ha scelto l’uomo che lo ha detto più chiaro di tutti: il nucleare non è negoziabile, è un argomento chiuso. Ha scelto il leader che pavimenta, fisicamente, la strada per l’avvento del Mahdi, il messia sciita. Lo show di potenza di Ahmadinejad è quello del regime che non si vergogna di impiccare dissidenti, omosessuali, donne; nessuno, neppure il conservatore Mohsen Rezai, ha potuto concorrere col candidato più antioccidentale, più antiamericano, più omofobo e antifemminista, più fanatico, più antisemita, più populista e più lontano da noi.

Non ci può far niente il variegato popolo iraniano, indubitabilmente antico e ammirevole mosaico di opinioni e di gruppi sociali. Perché ormai nel mondo la forza del peggiore è fortissima: Ahmadinejad trionfa perché, come ho letto in molti virgolettati degli elettori, “ha saputo riportare l’Iran alle gloria del mondo” oppure “ha messo in ginocchio l’Occidente” oppure “ha piegato il potere globale degli americani ed Israele”.

Non sono chiacchiere: la piramide occidentale dei diritti umani ha subito in questi anni, di fronte all’integralismo islamico, una flessione concettuale enorme. Il discorso mondiale si è incarognito e si è sgrammaticato al punto che l’Assemblea generale dell’Onu elegge presidente Ali Treki, ministro libico degli Esteri al tempo, lo scriveva ieri Giulio Meotti sul Foglio, in cui gli uomini protetti da Gheddafi facevano saltare per aria sinagoghe, aerei e discoteche. Prima di lui è stato presidente il nicaraguense Miguel d’Escoto, contraddistintosi per un grande abbraccio ad Ahmadinejad alla fine di un suo discorso in assemblea. Vicepresidente di Treki è un sudanese, rappresentante di un Paese presieduto dal sanguinario Bashir, su cui pesa l’accusa di genocidio e che rivendica pubblicamente il diritto della Sharia a tagliare mani e piedi. Il siriano Bashar Assad inaugurò uno stile dicendo accanto a Papa Giovanni Paolo II, che rimase basito, che gli ebrei torturavano i palestinesi come avevano torturato Gesù.

Il livello è questo, e noi li stiamo a sentire. Hassan Nasrallah, con cui l’Inghilterra vuole stabilire rapporti diplomatici e che il neoprimo ministro libanese Hariri seguita a tenere buono con promesse di lasciargli le armi e non fare la pace con Israele, in manifestazioni di massa chiama Israele con i nomi di tutti gli animali più schifosi e gli promette morte. Hamas tiene recite davanti a piazze enormi in cui fa ridere i bambini mostrando una caricatura delle sofferenze dell’ostaggio israeliano Gilad Shalit.

Le folle islamiche ormai, checché ne pensi Obama, sono molto sensibili al pensiero di umiliare l’Occidente, e si può temere che sia anche da ascrivere a questo, oltre ai fattori che elencavamo poc’anzi, la vittoria di massa di Ahmadinejad. Dominare, costringere i cristiani e gli ebrei a piegarsi, piace ai dittatori come Bashar Assad di Siria, come Bashir, e anche come il venezuelano Ugo Chavez o il "caro leader" nordcoreano Kim Jong Il. Piace agli Hezbollah, a Hamas, che a sua volta ha usato lo strumento delle elezioni per stabilire una dittatura; e abbiamo visto che piace anche a Gheddafi, che con i suoi ritardi e i suoi discorsi profetico-furbeschi ha cambiato la grammatica del consueto, ragionevole e anche cortese discorso politico cui siamo, o dovremmo essere, adusi.

Piace a gran parte delle folle delirare con vittimismo e onnipotenza. Ahmadinejad, dopo il discorso dell’Onu del 2005 in cui di nuovo prometteva morte a Israele, intimava a Bush di convertirsi, negava la Shoah, disse che aveva chiaramente avvertito il crearsi di un alone di luce intorno al suo corpo, e che aveva anche notato che uno dei delegati lo aveva guardato fisso per 27-28 minuti senza mai battere le ciglia. Adesso noi dovremo guardarlo fisso per altri quattro anni, e sarà meglio che ci svegliamo dallo sbigottimento che dà il cercare di comunicare con uno, dieci, centomila personaggi confusi, scriteriati, violenti e determinati al nostro male. Sbattiamo le ciglia prego.

(Tratto da Il Giornale 14 giugno 2009)