Che ci fà Rodotà tra Robespierre e Stalin?

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Che ci fà Rodotà tra Robespierre e Stalin?

Che ci fà Rodotà tra Robespierre e Stalin?

11 Gennaio 2008

 Da tempo nel nostro paese—ma forse
non solo da noi—la cultura politica e quella giuridica sono impegnate in una
nobile gara di generosità volta  ad
allargare indefinitamente l’ambito dei diritti. Non solo le ‘cose buone’ di una
volta ma, altresì, i bisogni più diversi, se fortemente sentiti e collegati
all’affermazione e al riconoscimento della 
dignità dei singoli diventano ‘pretese’che il legislatore è tenuto a
prendere in seria considerazione o meglio a tradurre in impegni solenni assunti
dalle autorità governative. La senatrice Livia Turco, per fare un esempio
significativo, qualche mese fa ventilò l’assunzione a carico degli ospedali
pubblici delle operazioni chirurgiche volte a consentire il cambiamento di
sesso a quanti si trovavano a disagio in quello fornito loro da madre natura.
Non appartengo al novero di quanti ritengono aberrante, sotto il profilo etico
e religioso, un tal desiderio di ‘mutamento di genere’ (anche in considerazione
del fatto che la predetta madre natura spesso fa il lavoro male, dimenticandosi
di accordare gli organismi, in tutte le loro parti, col modello prescelto) e mi
piace pensare a un mondo in cui, grazie alle tecnologie più avanzate, ciascuno sia
libero di riprogrammare se stesso—ma non gli altri! —come meglio
gradisce.  In questione, invece, è la
trasformazione di un’esigenza legittima e comprensibile in un ‘diritto’ che gli
altri sono tenuti a realizzare. E non mi riferisco, beninteso, ad eventuali
provvedimenti che governi generosi potrebbero prendere a favore di determinate
categorie, in presenza ovviamente di    risorse
di bilancio disponibili e, sempre e comunque, a seguito di accordi democratici
intercorsi tra tutte le parti interessate. I partiti di maggioranza, nell’ambito
dell’ordinamento costituzionale vigente, possono ottenere, per determinate
fasce sociali le più diverse agevolazioni e prestazioni di opera. A
preoccuparmi, piuttosto, è, per così dire, la giusnaturalizzazione,
immancabilmente seguita dalla costituzionalizzazione, di richieste che i nostri
nonni liberali avrebbero, per lo meno, ritenute eccentriche. In altre parole,
si possono fare tutte le leggi che si vogliono purché non vengano ritenute
‘atti dovuti’, registrazioni obbligate di diritti—nuovi o vecchi che siano—imprescrittibili
e indisponibili alla stessa stregua di quelli che componevano il treppiede
liberale lockeano—vita, libertà, proprietà. Per questi ultimi vige il
principio, fatto valere dal vecchio J. S. Mill, che nessuna maggioranza
democratica, pur se espressa da 999 mila voti contro uno, può evitare di tribuere unicuique suum : manomettere
vita, libertà e proprietà significa aprire un vero e proprio ‘scontro di
civiltà’, dare il via alla rottura del ‘pactum societatis’, aprire le cataratte
della rivoluzione e della guerra civile, Behemoth.
Il dibattito qui non è più politico, non è più un confronto tra i diversi modi
di promuovere l’interesse collettivo, nel quadro di radicati ‘valori comuni’,
ma investe le fondamenta stesse della comunità. Il problema della schiavitù
negli stati del sud ne è un esempio emblematico: mentre al Nord l’istituto
scellerato veniva riguardato come una colpa biblica da lavare anche col sangue,%0D
per il Sud  era un   contenzioso politico, sia pure più serio di
altri, tra le due parti della Federazione che doveva essere risolto attraverso
il bargaining parlamentare, gli
accordi e le mutue concessioni reciproche.

 Per queste ragioni non sono affatto irrilevanti
il modo e il linguaggio con i quali vengono presentate le esigenze di individui
e di particolari categorie sociali. Se tali esigenze, infatti, assumono la
forma di diritti naturali, da iscrivere nelle carte costituzionali, quanti non
le riconoscono diventano moralmente esecrabili, nemici ontologici, contro i
quali non rimane che sollevare l’opinione pubblica e bandire crociate. E’ il
mondo dei teodem, alla Paola Binetti, da un lato, e del radicalismo libertario,
dall’altro: ciascuno dei due vede nell’altro l’incarnazione del male, sia esso
definito in termini di oscurantismo cattolico o di cinico immoralismo laicista.
In entrambi i casi, l’altro non può, per la sua stessa natura lapsa, essere oggetto di rispetto sicché solo l’osservanza
necessitata delle forme democratiche impedisce una finale resa dei conti.

 In una società laica e liberale, lo si
ribadisce, i diritti che tutti sono obbligati a garantirsi reciprocamente, al
di là della conta dei voti elettorali, sono pochi: il resto è dibattito
politico sempre aperto, con la possibilità, per le squadre in gara, di vincere
o di perdere ma, altresì, con la certezza che sconfitta e vittoria non sono mai
definitive e, comunque, chi perde non perde tutto (giacché gli restano i
diritti che nessuno può toglierli) e chi vince non vince tutto (giacché la
politica non può invadere, oltre un segno prefissato, l’orizzonte della società
civile).

 E’ un discorso difficile da fare in Italia, e
specie in questi anni, dove non s’incontra quasi giurista di grido che non sia
un intellettuale di regime, ovvero un chierico engagé , interessato più che a porre il cittadino-lettore dinanzi
alla complessità dei problemi, ad accendere la fiamma delle passioni
partigiane. Dispiace dover citare, al riguardo, l’articolo di Stefano Rodotà,
apparso su ‘La Repubblica’
il 2 gennaio u.s., I 60 anni della Carta.
Che cosa resta della nostra Costituzione
. Lungi dal ricordare che la nostra
Costituzione ha ingenerato in passato e continua a ingenerare nel presente non
poche perplessità in tanti spiriti eletti dell’Italia repubblicana—mi limito a
ricordare il grandissimo Giuseppe Maranini—l’insigne giurista sceglie anche lui
la via demagogica dell’indignazione morale e della denuncia civile .. Fatta questa ‘apertura
dialogica’, Rodotà, cavalcando l’onda emotiva della tragedia della Thyssen Krupp,
si lancia in una difesa della prima parte della Costituzione—quella in effetti
più problematica—che non ammette alcuna incertezza sulla sua assoluta e perenne
validità.. Sennonché, trattandosi ,nel caso torinese, di materia
infortunistica (peraltro ben presente nel fascistissimo INFAIL), qualcuno ha
mai sostenuto, in linea di principio, che la ragion di fabbrica debba  prevalere sulla sicurezza del lavoratore  e che le norme relative   sono
.< Oggi> prosegue Rodotà < è proprio da lì che bisogna ripartire, da una sicurezza inscindibile dal rispetto della libertà e della dignità, dalla considerazione del salario non solo come ciò che consente di acquistare un lavoro sempre più ridotto a merce, ma come il mezzo  che deve garantire al lavoratore ed alla sua famiglia ‘un’esistenza libera e dignitosa’ (articolo 36)> Ma cosa
significano queste parole, che basta avere un minimo di umanità per condividere
toto corde ma che, trasposte su un
piano strettamente giuridico, risultano ‘di colore oscuro? Che si devono
imporre, svolgendo meglio il dettato costituzionale, alle imprese salari minimi
garanti di una ‘esistenza libera e dignitosa’? E libera e dignitosa’ in base a
quali standard? E fissati da chi? E se una fabbrica di palloncini colorati non
ce la facesse ad adeguarsi a quegli standard, dovremmo integrare i salari tutti
noi, attraverso l’imposizione fiscale? Ripeto, un governo che disponesse di
sufficienti risorse potrebbe pure addossarsi l’onere della cattiva congiuntura
per il mercato dei palloncini colorati ma se per imporlo si pensasse a un vero
e proprio un obbligo costituzionale, ciò sarebbe la riprova che, nel ventre del
cavallo di Troia dei diritti, stanno in agguato i nemici di ieri del mercato e
della ‘società aperta’.

 E, del resto, con un’analisi sociale che
sarebbe piaciuta a Herbert Marcuse e ai teorici dell’alienazione
capitalistica,Rodotà non esita forse a parlare di , di un Moby Dick, che ‘il commercio cinge con la sua risacca’.>?
Insomma i diritti e la costituzione contro
la logica perversa del mercato, contro . E’ il linguaggio
della ‘crisi della civiltà’ e della chiamata a raccolta delle forze ancora integre
della società perché arrestino in tempo l’avanzata di Mammona. Compito del
‘buon governo’, ci ricorda Rodotà, è quello di Belle parole che risvegliano le menti e toccano i cuori  degli egoisti più incalliti ma cosa
comportano, poi, nella pratica? Sia Robespierre
che Stalin avrebbero letto, approvato e sottoscritto ma non credo che Rodotà si
trovi bene in loro compagnia. E allora che cosa ha davvero in mente? Di
costituzionalizzare lo ‘Statuto dei lavoratori’ come si è fatto per il
Concordato? Di mettere nero su bianco e individuare con precisione i casi in
cui limitano ? E poiché, oggettivamente, rimuovere quegli
‘ostacoli’ comporterà una qualche misura di limitazione della libertà di altri
attori sociali, a chi verrà demandato il compito di stabilire il ‘come’ e il
‘quanto’? In un paese che si rispetti, tale compito viene  affidato ai partiti e al loro libero confronto
elettorale e parlamentare. Sennonché qui sta il punto. Per i nostri chierici la
competizione politica può risultare perdente per la ‘sana pars’ e allora è meglio tutelarsi preventivamente dall’
incerto e precario conflitto tra gli interessi di individui, gruppi e partiti  proiettando la lotta sul piano della ‘civiltà’
ovvero dei ‘sacri principi’ che i testi costituzionali debbono accogliere, al
di là del gioco alterno delle maggioranze e delle minoranze. In definitiva, le
mie vincite al gioco le mettiamo nella cassaforte delle ‘magne carte’ e le rendiamo
indisponibili, le tue fishes invece, vanno
a costituire il banco che può cambiare sempre di mano. Tutto bene, tutto
comprensibile. Non si vede, però, que
reste-t-il
non della costituzione ma di quel liberalismo al quale anche il nostro
garantista di ferro rende spesso omaggio.