Che fine farà l’Italia tra “Gli Stati Divisi d’Europa”
04 Luglio 2011
In un saggio apparso sul sito di Stratfor (Marko Papic, The Divided States of Europe, giugno 2011), che pubblicheremo integralmente quest’estate, si ragiona su come l’Europa sia in pericolo non soltanto per il "bailout" greco, bensì per la mancanza di una politica di sicurezza comune, frutto di quella complicata storia (poco pacifica) che arriva al secondo dopoguerra. Il testo è tutto proiettato sul futuro, su una possibile "regionalizzazione" dell’Europa nel lungo periodo, sia che s’intenda questo fenomeno come una ridefinizione dei blocchi di alleanze interne e delle rispettive zone d’influenza tra i Paesi membri (sempre restando nella cornice dell’Unione), sia che venga ipotizzata una prima separazione, con il rifiuto di entrare nell’eurozona da parte degli Stati che ancora non l’hanno fatto (se i salvataggi dovessero fallire, avrebbero un motivo in più per non fidarsi della moneta unica e delle politiche "rigoriste" ma ineffettuali di Bruxelles).
Nel risiko di Papic la Germania, grande protagonista dello scacchiere, diventa il partner privilegiato di Mosca, godendo della presenza di una serie di Stati cuscinetto tra il proprio territorio e la Russia. Berlino attira verso di sé l’Olanda, il Belgio e il Lussemburgo, esercita il suo magnetismo sulla Svizzera fino alla Valle del Po e ai distretti industriali italiani del Nord-Est, scende nei Balcani attraverso l’Austria, verso la Slovenia e la Croazia, e si offre come interlocutore di Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca, ancora indecise se schierarsi con i tedeschi. Gli Stati dell’Europa Centrale infatti avrebbero due alternative: andare al traino della Merkel oppure rafforzare il "Gruppo di Visegrad" (V4), di cui fanno già parte dalla fine degli anni Novanta, insiema alla Polonia, una nazione in ascesa, che oggi rappresenta la la "winter fell", il bastione per il contenimento della Russia putiniana. Il 12 maggio scorso, i Paesi del V4 hanno dato vita a un battle group comune (unità di fanteria e carri armati, ma anche training e scambio di informazioni e tecnologie), sganciandosi, in qualche modo, dalla NATO. Questi Stati temono l’appeasement delle grandi capitali europee (Berlino ma anche Parigi) con il Cremlino e si preparano al peggio sperando che gli Stati Uniti mantengano la parola sullo scudo spaziale. Al V4 non piace neppure l’impresa libica o che l’Alleanza atlantica si sia sbilanciata definitivamente verso il mondo arabo e islamico, come se il pericolo di Mosca fosse scomparso.
La chiave è Varsavia. La Polonia può essere il crocevia di un corridoio anti-russo che unisca il Gruppo di Visegrad, allargato a sud alle altre due grandi nazioni dell’Europa Orientale, Romania e Bulgaria, e a nord con i Paesi del Baltico (Estonia, Lettonia e Lituania), e con il Gruppo "Settentrionale" che ha il suo stato-guida nella Svezia e comprende la penisola scandinava, la Danimarca e l’Irlanda. Varsavia è la chiave di quest’alleanza che potrebbe estendersi fino alla Gran Bretagna, creando una robusta cintura protettiva dall’Atlantico al Mar Nero. Gli inglesi, da parte loro, hanno rinsaldato l’intesa con la Francia di Sarkozy. I due Paesi sposano la primavera araba e si sono rifatti una verginità post-coloniale presentandosi come potenze "consapevoli" e decise ad intervenire per fermare i massacri in Libia piuttosto che in Siria. I Balcani, infine, restano una zona non dichiaratamente schierata: la Serbia non si è ancora emancipata dalla Russia; Albania, Kosovo, una parte della Bosnia rientrano ormai nella sfera di controllo neo-ottomana.
A leggere il paper di Stratfor sembra quindi che il vero buco nero sia il Mediterraneo. Italia, Spagna e Grecia. Nazioni economicamente deboli (l’Italia è quella che rischia di meno), periferiche, e che resterebbero tagliate fuori dal gioco di alleanze che abbiamo appena descritto. Nel caso dell’Italia però conviene fare qualche considerazione aggiuntiva. Uno dei motivi per cui Papic non ci dà molta importanza è il deficit infrastrutturale: non abbiamo porti, un sistema ferroviario e stradale adeguati a garantire il transito delle grandi rotte commerciali provenienti da Suez e che s’incrociano nel Mediterraneo. Siamo una portaerei senza porti, un corridoio dove con l’alta velocità impieghi 4 ore per arrivare da Bari a Roma, il regno della telenovela "Salerno-Reggio Calabria". (Anche quello dei No-Tav, se è per questo.) Avevamo una possibilità con il South-Stream, il gasdotto gemello del North-Stream russo-tedesco, a cui stanno lavorando ENI e Gazprom. Il South-Stream avrebbe potuto far ripartire Corridoio VIII, uno dei grandi assi della mobilità europea; ma gli uffici del corridoio in Puglia sono chiusi da anni e ormai le multinazionali hanno deciso di far passare il gas proveniente dal Mar Nero attraverso i Balcani. La nostra politica estera è stata per anni, forse per necessità, ondivaga e fin troppo realista; siamo membri della NATO, partecipiamo alle principali missioni militari dell’Alleanza (perdendo molti dei nostri soldati), ma poi non sembriamo determinati fino in fondo quando viene presa una decisione come quella di bombardare la Libia. Abbiamo l’ambizione di essere la potenza leader nel Mediterraneo ma intanto la Francia torna nel suo "cortile di casa" in Nord Africa e ci rosicchia pezzi del nostro. La nostra economia, infine, ha retto alla crisi ma non è previsto che cresca. Non siamo un Paese povero, né del tutto fermi, ma a quanto pare l’Italia non sembra essere un partner decisivo per nessuno dei grandi stati dell’Unione. Non riesce a crearsi una propria zona d’influenza. Questi i punti di debolezza, le questioni aperte da affrontare.
Ci sono anche dei punti di forza. La Spagna, anch’essa irrilevante per Stratfor, potrebbe essere un alleato con cui costruire un serio percorso di avvicinamento politico. Se il ricambio previsto a Madrid con la fine dello zapaterismo coincidesse con una tenuta del centrodestra italiano si potrebbero gettare le basi di un’intesa più forte e combinata, partendo dal tema dell’immigrazione e dalla ridefinizione dell’idea di integrazione dopo il tramonto della società multiculturale. Spagna e Italia "subiscono" maggiormente i grandi flussi migratori provenienti dall’Africa e dal mondo arabo, e possono proporsi come il laboratorio per affrontare e gestire il fenomeno. Ma l’impressione è che il nostro Paese si stia dirigendo verso una "regionalizzazione" della sua politica estera, un fenomeno che potrebbe essere accelerato dalla rivoluzione federalista, non sappiamo con quali risultati. La Val Padana e l’area del Nord-Est tornano nell’area di influenza tedesca; la regione adriatica, dal Veneto alla Puglia, potrebbe rappresentare il trampolino di lancio per una penetrazione più decisa nei Balcani (fino alla Grecia); il Mezzogiorno diventare il laboratorio a cui si faceva riferimento prima, puntando sui rapporti economici con i Paesi del Maghreb e del Medio Oriente. E a questo punto, considerando che tutti, chi più chi meno, in Europa fanno affari con Mosca, tanto vale far sentire il peso di ENI, anche in virtù delle pacche che il premier Berlusconi può vantare sulle spalle dell’amico Putin (un’eredità preziosa per i suoi successori, se la Russia saprà democratizzarsi). Il rapporto con Mosca è pieno di incognite e di contraddizioni, ed è partito monco di diritti umani e libertà di parola. Putin rimarrà un alleato scomodo, ma se diamo retta a Stratfor forse è l’unico sul mercato. Per quanto ci riguarda, abbiamo provato a tracciare qualche strada alternativa a questa.