Che fine faranno i cattolici democratici del Pd?
24 Settembre 2007
Cosa ne sarà dei “cattolici
democratici” nel futuro Partito democratico? Divisi tra la linea di Rosy Bindi,
– orgogliosa, autonomista, aperta alla sinistra radicale – e quella di Fioroni
– pragmatica, di appoggio a Veltroni, riformista -, dibattuti tra non fare una
propria corrente stabile dentro il nuovo partito e l’imprinting democristiano
ad accaparrarsi la maggioranza dei candidati eletti alle primarie del 14
ottobre, i cattolici democratici potranno avere nell’immediato una forza
considerevole nel Partito democratico, ma riusciranno a sopravvivere ad un
probabile consolidamento della linea Veltroni?
Mimmo Lucà, coordinatore dei Cristiano sociali, ala avanzata dei
cattolici democratici, ha escluso una corrente cattolica nel Pd. Dario
Franceschini dice che “come cattolici democratici abbiamo ancora molto da dire”
ma poi non sa che proporre una Fondazione culturale a cui affidare questo “molto
da dire”.
Spostandosi dal piano politico a
quello culturale, si comprende che, consolidandosi la linea Veltroni, l’unica
ipotesi plausibile nel lungo termine sarà quella ipotizzata da Lucà: una
dissolvenza dei cattolici democratici, il che, a ben vedere, è conseguente alla
loro stessa cultura di origine. I cattolici democratici hanno questo di bello e
di strano: la loro cultura li vota al suicidio, alla rinuncia ad una identità
di gruppo, alla diaspora. E siccome la linea di Veltroni è proprio quella della
diaspora delle identità dentro un partito che sarà solo “post” – post
socialista, post democristiano, post-ideologico, post-religioso, post
identitario – i cattolici democratici non potranno non dissolversi in esso. Si
tratta, infatti, di due linee culturali convergenti.
Possiamo riassumere la cultura
del cattolicesimo democratico in tre punti. Primo: autonomia assoluta della
coscienza personale in politica, ossia l’essere cattolici “adulti”, secondo
l’espressione di Prodi ai tempi del referendum sulla legge 40. Quanto è “non
negoziabile” sul piano teologico ed etico, lo diventa quindi sul piano
politico. Secondo: la democrazia come valore in sé e il dialogo non come mezzo
ma come fine. Ne consegue un “moralismo della costituzione” al cui interno
diventano possibili tutti i compromessi perché i cattolici democratici temono
di più gli steccati tra laici e cattolici piuttosto che i contenuti di volta in
volta in gioco. Terzo: il servizio della Chiesa al mondo deve essere solo di
carità e non di verità. Una Chiesa minima, che non insegna e non condanna, che
non parla e non decreta ma si limita a testimoniare. Accogliere tutti viene
scambiato con accogliere tutto.
Per i cattolici democratici la
laicità è il luogo in cui il cattolico non si fa riconoscere come tale perché
sarebbe integralismo. Ne consegue che essi vedano negativamente l’atteggiamento
della “presenza”, sia nella forma di una presenza cattolica dichiarata a
livello personale sia nella forma di una presenza comunitaria. Eccoci alla
diaspora, non subita ma cercata. Ma eccoci anche al suicidio dei cattolici
democratici come tali. Il cattolicesimo non deve avere una presenza pubblica,
ma solo compiere una azione di formazione delle coscienze per suscitare
testimonianze, ma fermandosi sulla soglia del profano, nel quale entreranno i
singoli fedeli laici a titolo personalissimo, confondendosi con tutti gli
altri.
E cosa sarà, appunto, il nuovo
partito democratico di Veltroni se non l’approdo di molte diaspore? Una
diaspora in atto. Il Partito democratico sarà il partito del relativismo,
imposto non più ideologicamente ma in maniera tollerante. Un mettersi insieme
spurio, fondato sull’oblio del proprio passato, che riuscirà ad evitare i
contrasti sui temi caldi solo rimettendoli alla coscienza individuale, ossia
non prendendo posizione. Sarà un partito pragmatico, incentrato sulle cose da
fare. I cattolici democratici ci si troveranno molto bene, al punto tale da non
sentire più il bisogno di loro stessi.