Che fine ha fatto il giornalismo nell’epoca della postverità

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Che fine ha fatto il giornalismo nell’epoca della postverità

26 Maggio 2017

C’è stato un tempo in cui il giornalismo americano era una cosa seria, veniva preso a modello in tutto il mondo, e reporter di razza non temevano di cacciarsi nei guai pubblicando notizie esplosive. Come in quel film degli anni Settanta, “I tre giorni del Condor”, quando l’agente deviato della CIA dice al protagonista, Condor, “Sei proprio sicuro che il New York Times pubblicherà queste notizie?”. Ecco, fino a qualche decennio fa almeno c’era il beneficio del dubbio: la possibilità o meno che editori coraggiosi rendessero pubblici segreti di stato con tutto quello che ne consegue in termini di stabilità politica e democratica.

Oggi quella possibilità sta rapidamente tramontando, almeno per i giornaloni che si trovano sempre più spesso a difendersi dalla concorrenza degli hacker e di WikiLeaks. Prendiamo il caso diSeth Rich, l’impiegato del DNC, il comitato nazionale del partito democratico, trovato cadavere a Washington l’estate scorsa. Sono trascorsi mesi da quell’omicidio frutto, secondo la polizia, di una rapina finita male. Una rapina rimasta senza un colpevole e senza un movente, visto che la vittima, Rich, quando viene ritrovato indossa ancora il suo portafoglio e l’orologio di marca. Ben presto comincia a circolare la voce che il giovane Rich avrebbe pagato con la vita il fatto di essere la gola profonda di WikiLeaks, l’organizzazione fondata da Julian Assange. Sarebbe stato lui a passare a WikiLeaks le email che hanno inguaiato i vertici del partito democratico, impegnato durante la primarie del partito ad ‘asfaltare’ Bernie Sanders, il candidato rivale della superfavorita Hillary Clinton.

La notizia è ghiotta: WikiLeaks aveva una talpa nel partito democratico. Altro che hacker russi impegnati a sabotare la campagna elettorale americana per far vincere Trump, come invece hanno scritto per mesi i grandi giornali. Nei giorni scorsi, è l’emittente conservatrice Fox News ad accreditare il collegamento tra Seth Rich e WikiLeaks. Scoppia subito una baraonda. Il resto della stampa, invece di approfondire la pista di Fox, dà spazio ai genitori di Seth, alla famiglia Rich, i quali genitori, legittimamente, dal loro punto di vista, chiedono di smetterla, basta fango sulla morte di nostro figlio. Navigando su Google News edizione Usa si parla soprattutto di questo.

Fino al nuovo colpo di scena: Fox News fa marcia indietro, il collegamento non è così sicuro come sembra, i riscontri fatti non sono stati sufficienti, insomma non una bella pagina per la corazzata del giornalismo conservatore, che, ricordiamo, ai tempi della candidatura Trump non spese un dollaro per la vittoria del Don. La mossa di Fox si rivela azzardata. Una delle voci più ascoltate del mondo conservatore, Sean Hannity (nella foto), volto noto al pubblico della emittente americana, rilancia: il link tra Seth Rich e WikiLeaks c’è eccome e non mi fermerò anche se comprendo il dolore dei genitori. La pista viene seguita anche da un altro grande furbacchione del web, l’hacker Kim Dotcom, che dalla Nuova Zelanda a sua volta cinguetta dando indicazioni su dove trovare conferma del “leak”. 

La risposta della grande stampa liberal è ancora una volta dare spazio ai coniugi Rich e alle loro comprensibili rimostranze, e anche Fox si allinea. Kim Dotcom continua ad essere dipinto come uno stravagante personaggio del web su cui non si può fare certo affidamento (nonostante in campagna elettorale Kim abbia dato grande filo da torcere ai clintoniani). Sean Hannity viene abbandonato dai suoi inserzionisti pubblicitari che, a quanto pare, non apprezzano che si continui a raccontare questa storia, davvero una bella idea di libertà della informazione. Così, mentre i giornaloni fanno da psicologi alle famiglie delle vittime delegando ad altri la ricerca della verità, mentre la bufala, ops, la fake news sugli hacker russi continua a volteggiare ridicola sul presidente Trump, nella ambasciata ecuadoregna a Londra Julian Assange se la ride, muovendo un altro pezzo nella scacchiera della nuova informazione all’epoca delle “postverità”.