Che fine hanno fatto i servizi per l’impiego?
24 Ottobre 2007
In Italia l’odierna congiuntura è stata determinata da cambiamenti storici incidenti sul sostrato economico e sociale del Paese, che hanno indotto lo Stato a porre in essere misure di razionalizzazione del sistema di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro.
Se per un periodo tutt’altro che breve, l’intervento pubblico sul mercato del lavoro ha contraddistinto l’incontro tra la domanda e l’offerta tramite il monopolio pubblico del collocamento (che è stato la causa della sentenza di condanna dell’11 dicembre 1997 da parte della Corte di Giustizia europea), il quadro dei servizi per l’impiego è mutato a seguito della liberalizzazione del mercato del lavoro, in ragione dell’accesso dei soggetti privati alla gestione dei servizi di avviamento al lavoro.
È così venuto a mancare (senza alcun desiderio di commemorazione), una delle linee basilari dell’impianto della legge Fanfani del 1949 (che coglieva il suo archetipo nel periodo fascista ed è rimasta vigente fino agli anni novanta), ovvero il possesso dell’esclusiva nella gestione del collocamento: il pacchetto Treu prima (con la disciplina del lavoro temporaneo) e il decreto Montecchi dopo (con «il conferimento alle regioni e agli enti locali delle funzioni e compiti relativi al collocamento e alle politiche attive del lavoro, nell’ambito di un ruolo generale di indirizzo, promozione e coordinamento dello Stato»), hanno indissolubilmente siglato il ripensamento del sistema di impiego.
La svolta determinante nel processo di sistemazione organica del collocamento, è tuttavia rinvenibile nella legge Biagi (a cui ha fatto seguito il D. lgs. 276/03), che ha il merito di aver riorganizzato il mercato del lavoro (grazie alla quale, tra l’altro, nuovi soggetti sono stati legittimati all’attività di intermediazione di manodopera).
Ma quale strategia è disegnata nell’accordo del 23 luglio scorso, sottoscritto dal Governo e dalle parti sociali nei confronti dei servizi per l’impiego? «La strategia di riforma poggia su integrazioni e modifiche del decreto legislativo 276/2003 – si legge nel testo dell’accordo – e sul potenziamento dei servizi pubblici che sono uno snodo fondamentale della riforma degli ammortizzatori sociali in senso proattivo. L’operatività dei servizi pubblici per l’impiego sarà rafforzata anche con l’avvio a regime del sistema informativo, la comunicazione preventiva di assunzione e la revisione delle procedure amministrative». E ancora: «Le procedure di trasmissione dei dati utili alla gestione complessiva del mercato del lavoro tra tutti i soggetti della rete dei servizi pubblici saranno velocizzate e semplificate». Nell’ambito dei finanziamenti comunitari del PON-FSE verranno reperite, infine, le risorse finanziarie per implementare tali interventi.
Il Protocollo sembra auspicare l’ottenimento di una maggiore cooperazione tra attori pubblici e privati nella gestione del collocamento %28naturalmente gli unici soggetti deputati all’erogazione della certificazione dello stato di disoccupazione, rimangono quelli pubblici), e l’ottimizzazione del sistema informativo. In virtù di questo proponimento di efficienza, verrà pienamente messa a regime la Borsa Continua Nazionale del Lavoro (una rete che collega a livello nazionale i sistemi informatici delle Regioni e che permette, a tutti gli attori presenti sul mercato del lavoro, di dialogare)?
Singolare il terzo punto dell’accordo: «La partecipazione attiva ai programmi di inserimento lavorativo, requisito essenziale di una politica di “welfare to work” (politiche attive del lavoro, ndr), può essere sostenuta da schemi che prevedano un “patto di servizio” da stipulare tra i centri per l’impiego e le persone in cerca di lavoro». A tal riguardo, risulta condivisibile l’editoriale apparso su Job 24 (de Il Sole 24 Ore) di mercoledì 8 agosto 2007, nel quale Walter Passerini ha affermato: «in un Paese normale i servizi all’impiego devono garantire ai cittadini un servizio. In Italia dobbiamo chiamarlo “patto”, segno che c’è ancora qualcosa che non va».