Che male c’è a dire che il Dio del Corano non è lo stesso della Bibbia?

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Che male c’è a dire che il Dio del Corano non è lo stesso della Bibbia?

19 Aprile 2009

La definizione “popoli del Libro” – espressione che vorrebbe includere cristiani, ebrei e musulmani – ha in effetti qualcosa di equivoco, anzi di profondamente sbagliato  è questa la tesi di Carlo Panella, scrittore e opinionista genovese con alle spalle una piccola biblioteca di libri che scavano nel mondo islamico, ora autore del saggio “Non è lo stesso Dio non è lo stesso uomo. Bibbia e Corano a confronto” (uscito per tipi della casa editrice senese Cantagalli). Un’opera che punta al cuore dei due grandi testi sacri. “Nessuna scala di valori, naturalmente – precisa Panella – nessuna pretesa di superiorità della Bibbia rispetto al Corano. Solo la constatazione che quasi nulla hanno a che fare l’una con l’altro”. Non è affermazione dappoco. Considerate le implicazioni che da questa constatazione discendono anche per leggere certi aspetti scabrosi del mondo contemporaneo.

Nel Corano c’è più che altro prescrizione, mentre nella Bibbia trova spazio il romanzo del dramma dell’uomo…

No, a istituire un confronto così si finisce fuori strada. Perché tra Bibbia e Corano non ci può esser vera comparazione. Sono testi imparagonabili. Bisogna perciò entrare nel merito, leggerli con attenzione. In soldoni, la differenza fondamentale fra le due opere riguarda l’idea di uomo e di Dio che vi è rappresentata.

Facciamo un ulteriore passo avanti. Nei primi secoli dopo Maometto si sviluppa all’interno dell’Islam un tentativo di elaborazione filosofica. Un nome per tutti: Averroé. Poi però arrivano i rigoristi, nemici della filosofia. E soprattutto prevalgono quasi senza opposizione.

L’antico modello maomettano si era nel frattempo ampiamente ibridato con la cultura ebraico-cristiana-ellenistica. Era quindi diventato a rischio di averroismo. Una situazione che di certo non doveva piacere ai rigoristi, difensori di una lettura formalistica ed esteriore del libro. Era la reazione della grande casta, anzi della grande chiesa, anzi degli ulema. Un’offensiva che in uno spazio di tempo relativamente breve è riuscita a riappropriarsi integralmente del Corano, affermando che la fede non va sottoposta alla ragione, e imponendo quindi il dogma del Corano increato. È come se il Dio dei cristiani, invece che nel Cristo si fosse incarnato direttamente nel Vangelo.

Oggi si parla molto del cosiddetto Islam moderato….

L’Islam moderato in realtà non esiste. C’è un Islam dogmatico, che deriva dal Corano increato e rappresenta grosso modo il 98 per cento dei credenti, accanto a cui convive una sparuta schiera averroista, concentrata soprattutto in India.

Vita dura quindi per i riformisti, a rischio di fare la fine del teologo sudanese Muhammad Taha (impiccato nel 1985 a Khartoum per apostasia, idolatria e blasfemia, ndr.)?

Nei paesi arabi effettivamente è così; in India, ribadisco, no. Nel paese di Gandhi i seguaci del profeta Maometto riformisti possono persino aspirare alla carica di primo ministro. Lo stesso non accade nel vicino Pakistan dove imperversa la componente antiaverroista.

Nel libro si affronta anche il problema della “cultura della morte”…

All’interno del mondo islamico, c’è una religione della morte che accomuna wahabiti, khomeinisti e così via. Nell’Islam la vita non è considerata qualcosa di sacro, tanto che nelle sue prescrizioni è scritto: “Non uccidere, a meno che…”. Il comandamento ebraico e cristiano invece recita semplicemente: “Non uccidere”. È vero: se uno consulta il Levitico vi trova la legge del taglione. È un’affermazione durissima e molto simile alla shari’a. Ma, visto che nei Dieci comandamenti c’è scritto “Non uccidere”, quel diktat terribile si può considerare superato dall’evoluzione dell’ebraismo e del cristianesimo.