Che motivo c’è di vendere la Ru486 anche in Italia?

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Che motivo c’è di vendere la Ru486 anche in Italia?

03 Agosto 2009

La pillola abortiva ha provocato 29 morti accertate. Non può essere utilizzata se non in ambito ospedaliero. Ha rischi maggiori dell’aborto chirurgico. E allora qual è il motivo che ha spinto l’Agenzia italiana del farmaco a commercializzare la Ru486? Una domanda sola, secca, che ha bisogno di avere una risposta altrettanto chiara. Proviamo a fare delle ipotesi, nell’attesa che qualcuno ci dia la risposta che aspettiamo.

Forse l’Aifa, facendo gli interessi di una ditta farmaceutica che vuole ampliare il bacino delle vendite, gioca una sua partita strategica. Forse vuol fare invece gli interessi delle strutture ospedaliere che sono intasate per il numero troppo alto di interruzioni volontarie di gravidanza. O invece l’Aifa si è schierata a favore di quel fronte pro-choice che oramai ha sembrato dimenticare completamente che cosa significa la salute della donna, immolandola sull’altare dell’ideologia post-femminista. O ancora ha ceduto alle pressioni esterne allineandosi con la posizione di altri paesi europei

Quanto siano plausibili queste spiegazioni non è dato di saperlo, ma certamente queste sono tutte questioni da porsi, all’indomani della decisione di dare il via libera anche in Italia alla vendita della pillola abortiva Ru486. Innanzi tutto per l’incompatibilità che la commercializzazione della Ru486 potrebbe avere nei confronti della legge 194, la legge che regolamenta l’interruzione volontaria di gravidanza. E anche nei confronti di ben due pareri che il Consiglio superiore della sanità ha già espresso circa i rischi di assunzione. Pareri in cui tra l’altro si affermava che “i rischi per la salute della donna sono analoghi in caso di aborto chirurgico e di aborto chimico solo se in quest’ultimo caso viene garantito il ricovero ospedaliero”. L’Aifa può dare tutte le garanzie che crede, ma all’atto pratico non è possibile assicurare che ciò avvenga per i costi sanitari di una simile operazione e per la stessa volontà della donna che, da prassi, e nel 90 per cento dei casi, decide di ritornare (o viene rimandata) a casa dopo aver assunto la prima delle due pillole abortive.

C’è un sospetto ulteriore che però alimenta le polemiche di questi giorni e ruota tutto attorno alle parole e al ruolo di Giovanni Bissoni, assessore alla Sanità dell’Emilia Romagna e componente del Cda dell’Aifa. All’indomani del pronunciamento dell’agenzia, infatti, l’assessore del Pd aveva dichiarato con tanta sicumera: “la pillola verrà somministrata solo in ospedale, entro le sette settimane di gravidanza, in modo che le complicanze fra metodo farmacologico e chirurgico siano sovrapponibili“. Peccato che in Emilia Romagna l’aborto con Ru486 viene praticato dal 2005 importando direttamente dalla Francia la pillola abortiva, che avviene in regime di day hospital, che nel 2007, con questa procedura abortiva solo una donna su 563 è stata ricoverata in regime ordinario, e che quindi in pratica è stato istituito un rischiosissimo sistema di aborto a domicilio tutto a carico del sistema sanitario emiliano. Delle due una: o Bissoni ha cambiato opinione durante il Consiglio di Amministrazione dell’Aifa e l’Emilia dovrà iniziare a seguire un protocollo standard che garantisca la sicurezza delle donne o il tentativo è quello di istituire un aborto fai-da-te, applicando il protocollo emiliano a tutta l’Italia. Basta saperlo. Insieme a tutto il resto.