Che senso ha parlare di integrazione dopo Nizza

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Che senso ha parlare di integrazione dopo Nizza

19 Luglio 2016

In  Europa ormai la morte ti prende alle spalle, improvvisa e casuale, in una stazione, in metropolitana, all’aeroporto, al supermercato, a teatro, al ristorante: ridotto in mille pezzi da una bomba o da una raffica di kalashnikov. Oppure sul lungomare d’estate, schiacciati come animali da un tir guidato da un solo uomo, come a Nizza

Per i governi e  media europeisti che strillano contro chi si preoccupa per l’immigrazione inarrestabile, contro Brexit, contro gli Stati che rivogliono le frontiere per sapere chi entra a casa loro, dovremmo abituarci a morire così. La cultura ufficiale è  quella del farmacista Homais, considerato il simbolo della mediocrità provinciale da Flaubert in Madame Bovary. È un Homais italiano Angelo Panebianco che il 26 maggio 2016, sul Corriere, attacca chi è preoccupato per la immigrazione e dichiara che l’Italia ha bisogno di un melting pot come negli Stati Uniti d’America.

Il melting pot funziona tanto bene negli Stati Uniti che è in corso da qualche anno una guerra razziale. Pochi giorni fa, a Dallas, sono stati uccisi cinque poliziotti da un cecchino nero, un american sniper, dopo che il primo presidente afroamericano aveva appena accusato la polizia di pregiudizi razziali. Domenica 17 luglio altri tre poliziotti sono stati uccisi in Louisiana. I media si chiedono: c’è la guerra civile negli Stati Uniti? Siamo in pieno disordine globale.

La tesi dei terroristi  depressi, disadattati, malati mentali  è debole. Il piano di affittare un tir frigorifero e lanciarlo sul lungomare di Nizza il 14 luglio, durante i fuochi artificiali, per uccidere il maggior numero di nemici possibile è di una razionalità perfetta per chi si sente in guerra. Non funziona neppure la vecchia teoria neocon che è tutta colpa del Corano e della religione, perché i jihadisti non uccidono per motivi religiosi, ma perché vogliono terrorizzarci e imporci il loro modo di vivere. 

Per questo siamo in guerra. E non è un clash of civilizations, bensì una guerra di potenza, come tutte le guerre. Il clash of civilizations è in corso negli stessi Stati Uniti tra Obama e Trump. Tra chi vuole l’impero globale, il  melting pot e il mercato globale – come Obama e Hillary Clinton – e chi l’America grande nazione, con le sue frontiere, che protegge i suoi cittadini, e accetta che altri Stati e civiltà vivano secondo le loro regole e culture.

I neocon, vecchi marxisti e trotskisti, e allievi di Leo Strauss, saliti sul carro di Bush dopo l’11 Settembre, avevano  dimenticato che gli arabi  conquistarono e dominarono la penisola iberica per circa settecentocinquanta anni e l’impero ottomano fu presente nei Balcani fino alla fine della prima guerra mondiale. Nel 1978 Edward Said ci aveva avvertito che gli stereotipi dei nostri orientalisti erano fasulli. Gli arabi sanno fare la guerra: l’Afghanistan è la solita tomba degli imperi e l’Iraq è stato peggio del Vietnam. La guerra di Bush e Blair  è stato un clamoroso errore, come ha rivelato il Chilcot report

Per Philip Hammond, ministro di Cameron e ora di Theresa May, l’errore più grave degli americani fu la rimozione dei sunniti dall’esercito iracheno: 400mila ufficiali e soldati diventati il nucleo professionale di Isis. Per Patrick Cockburn, grande esperto di Medio Oriente, l’obiettivo delle guerre di Bush e delle arab spring di Obama era la distruzione degli stati nazionali arabi, la fine del Sykes-Picot e la formazione di un impero neo-ottomano guidato da una Turchia islamista ed egemonizzato dalla Nato. L’impero globale di Bush e di Obama prevedeva la fine degli stati nazionali europei e arabi, melting pot e mercato globale sotto l’egida della Nato.

Per questa ragione i tradizionali partiti europeisti di destra e di sinistra europeisti e ora tifosi di Hillary Clinton si alleano contro i “populisti” euroscettici per difendere l’immigrazione e il melting pot in Europa. Per questo ci sono paesi come l’Italia che premono per la Turchia islamista di Erdogan in Ue, anche se la Turchia ha lasciato passare dalle sue frontiere migliaia di jihadisti verso la Siria e ora dalla Siria i jihadisti tornano a colpire in Europa. La Francia è stata la più colpita dagli attentati, perché è  il paese con più jihadisti e più coinvolta nella guerra in Siria. 

A fianco di Obama, Hollande ha sostenuto e armato i ribelli contro Assad per smembrare la Siria, con l’aiuto della Turchia. Come ricorda spesso Alberto Negri, l’intervento della Russia in Siria ha cambiato la situazione e i jihadisti tornano a colpire in Europa chi li aveva mandati a combattere in Siria e in Iraq. 

Il Califfato è per i jihadisti europei  lo stato-guida, come Mosca lo era per i comunisti. Per Olivier Roy, l’orientalista che  scrive per “L’Humanité”, i terroristi che hanno colpito in Francia sono dei disadattati alla ricerca di una causa, di un’etichetta qualsiasi e Isis o un’altra sarebbe la stessa. Basta però pensare a “Il fondamentalista riluttante”, il film tratto dall’omonimo romanzo  del pakistano Monsin Hamid pubblicato da Oxford UP, per avere  un’analisi diversa del fenomeno.  

La teoria di Hume della molteplicità delle identità presenti in un individuo aiuta più delle teorie neocon. La vita di un giovane pakistano PhD di Princeton, analista finanziario, contento di lavorare in America e fare soldi, quell’11 Settembre cambia perché lui è felice di vedere crollare le due torri. Il 9/11 è stato il  capolavoro di bin Laden perché gli americani fecero ciò che  voleva il leader di a Qaeda: ogni arabo, dovunque fosse, doveva sentirsi Davide che abbatte Golia. 

Il 9/11, l’Afghanistan, l’Iraq, gli attacchi all’Europa, dimostrano che gli arabi sanno fare la guerra, a differenza di quanto pensavano Bush e Blair che credevano di creare un nuovo ordine globale. Adesso siamo nel caos e non ha senso parlare di integrazione e melting pot quando i cittadini europei vengono uccisi come bestie per le strade.