Che succede se Obama stacca la benzina all’Iran?
27 Giugno 2009
Il regime teocratico iraniano è il principale responsabile dell’instabilità geopolitica di un’area che va dalle coste del Libano sino ai monti del Kashmir. Con un Iran libero e democratico non esisterebbero Hezbollah e Hamas, la Siria sarebbe impotente nelle sue aggressioni al Libano, l’Iraq del dopo Saddam Hussein sarebbe sicuramente facilitato nella sua ricerca di un nuovi e virtuosi equilibri interni, e in Afghanistan l’appoggio iraniano sarebbe determinante per sradicare i focolai bellici dei comuni nemici talebani, narcotrafficanti e militanti di al Qaida, fin su per le vallate al confine col Pakistan. Ma, soprattutto, un Iran libero e democratico, non antioccidentale e antisemita, sarebbe il primo alleato di Stati Uniti ed Europa nella guerra al terrorismo e nell’impresa di integrare il Grande Medio Oriente in un blocco regionale che non produca insicurezza e possa prosperare grazie al libero mercato. Purtroppo questo Iran ancora non esiste, o meglio esiste solo nella mente di chi da sempre combatte per la liberazione del popolo iraniano dal regime khomeinista. I tumulti scoppiati in seguito alle contestate elezioni del 12 giugno hanno gettato nell’incertezza il destino del Paese, e chissà che dal caos non emerga l’Iran libero e democratico sognato dalla moltitudine che in questi giorni sta sfidando apertamente il potere dei mullah.
Tuttavia, l’Iran di adesso, dominato dall’ala radicale dei pasdaran e dal loro riferimento politico nella persona di Mahmoud Ahmadinejad, non consente di abbassare la guardia, anzi: a incombere più che mai è la questione del suo programma nucleare. Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), l’Iran avrebbe già accumulato una quantità di uranio arricchito superiore di un terzo a quella prevista, accrescendo ulteriormente le preoccupazioni su una possibile dimensione militare del programma. Il presidente americano, Barack Obama, ha avanzato a Teheran un’offerta di dialogo senza precondizioni, ma ha mantenuto sul tavolo l’opzione dell’inasprimento delle sanzioni come strumento di pressione, minacciando espressamente di colpire il settore energetico, di vitale importanza per l’economia del regime iraniano. Ed è qui che s’inserisce un’importante iniziativa della Foundation for Defense of Democracies (FDD), think tank indipendente di Washington creato all’indomani dell’11/9 per monitorare gli studi sul terrorismo e gli scacchieri bellici internazionali. Con l’Iran Energy Project, la FDD intende offrire il suo contributo allo sforzo americano ed europeo per impedire che Teheran si doti di armi nucleari, puntando quello che viene considerato il tallone d’Achille del regime khomeinista: la benzina. Benché, infatti, sia il quarto produttore mondiale di greggio, l’Iran deve importare il 40% dei carburanti di cui necessita, non avendo sufficiente capacità di raffinamento. Un ulteriore e più pressante blocco delle importazioni nei suoi confronti, concentrato sulle forniture di carburante, provocherebbe gravissimi danni all’economia iraniana, tanto da poter indurre Teheran a più miti consigli sulla questione del nucleare.
I ricercatori della FDD hanno accertato quali siano questi fornitori di carburante, fra cui citiamo l’indiana Reliance Industries Ltd., la British Petroleum (che però ha ora interrotto i contratti iraniani), la svizzera Vitol. Il 28 aprile scorso, su incentivo della FDD, un gruppo bipartisan di senatori americani ha fatto approvare The Iran Refined Petroleum Sanctions Act, una normativa che prevede pesanti sanzioni contro chiunque, persona fisica o giuridica, fornisca carburante all’Iran o lo aiuti a importarne. Le misure prevedono: sanzioni contro la Central Bank of Iran, sanzioni contro le banche americane che continuano a fare affari con le banche iraniane, negazione di attracco nei porti americani di navi con traffici destinati all’Iran, sanzioni contro le compagnie assicurative che possiedono nei propri clienti navi con traffici destinati all’Iran, sanzioni contro le compagnie petrolifere che investano e firmino contratti con l’Iran.
La reazione del regime iraniano non s’è fatta attendere e ci tiene ad apparire come sempre molto spavalda: «Abbiamo già considerato i meccanismi da adottare per rispondere a un eventuale blocco», ha affermato il portavoce iraniano agli Esteri Qashqavi nella sua conferenza stampa settimanale. «Si tratta di una mossa inefficace. Le sanzioni non hanno impedito all’Iran di raggiungere i suoi obiettivi negli ultimi trent’anni, e non glielo impediranno in futuro. La politica delle minacce è finita». In effetti dargli torto non è facile. D’altro canto, Abbas Maleki, direttore dell’Institute for Caspian Studies di Teheran, teme l’imposizione di nuove sanzioni: «Le sanzioni del Consiglio di sicurezza sono molto negative dal punto di vista legale e politico, perché sono una misura internazionale e possono aumentare il nostro isolamento. Dal punto di vista pratico però le sanzioni Usa sono più temibili, perché limitano l’accesso dell’Iran al sistema finanziario mondiale: le banche iraniane hanno sempre più difficoltà a veder accettate le loro lettere di credito. Hanno un impatto negativo sull’economia, non tanto da indurre un cambio di regime, perché il governo è forte, ma abbastanza da ridurre il tasso di crescita e avere effetto deterrente per gli investimenti nel settore petrolifero e del gas».
Tuttavia, l’efficacia delle sanzioni nel settore energetico dipenderà in gran parte dall’Europa. Nella bilancia commerciale, gran parte delle importazioni europee dall’Iran riguardano l’energia, e in ciò paesi come l’Italia e la Germania sono i più esposti. Sarà pertanto difficile spingere le compagnie energetiche nazionali europee, e i rispettivi governi, a non investire in attività di sviluppo in territorio iraniano, assai fertile da questo punto di vista. Se gli Stati Uniti decideranno di colpire Teheran nel settore energetico, gli europei potrebbero dissociarsi e imboccare la strada opposta, come hanno già fatto con le sanzioni americane approvate negli anni novanta.
Basta dare un’occhiata ai dati per farsi un’idea dell’interdipendenza economica che lega l’Iran all’Europa. L’Italia è il primo partner commerciale iraniano, con un interscambio complessivo di 6 miliardi di euro nel 2007 in aumento; i programmi di assicurazione all’export dell’Italia verso l’Iran ammontano a circa 4,5 miliardi di euro, tra i paesi dell’UE seconda solo alla Germania; la Crbm (Campagna per la riforma della Banca Mondiale) afferma che «da diversi anni l’Iran figura ai primi posti nell’elenco dei Paesi verso cui la SACE (l’Agenzia di Credito all’Esportazione, al 100% di proprietà del Ministero del Tesoro italiano, che assicura le imprese con progetti e investimenti in Iran) fornisce garanzie. Le importazioni dalla Repubblica islamica, per l’80% petrolifere, sono state pari a 3,9 miliardi, contro esportazioni per 1,8 miliardi, che hanno posizionato l’Italia al terzo posto tra i Paesi fornitori di Teheran, dopo la Germania e la Francia. Mediobanca, Eni, Telecom, Capitalia, Montedison, Falck sono solo alcuni grossi nomi italiani attivi da sempre in Iran. La Francia è il secondo interlocutore commerciale del regime, con l’8,5% di importazioni (2598 MUSD) e il suo settimo cliente col 3,5% di esportazioni (1078 MUSD), particolarmente per l’industria petrolifera (il 3% degli idrocarburi francesi arriva dall’Iran) e automobilistica (Renualt). Col presidente Sarkozy, tuttavia, recentemente le posizioni francesi tentano d’allinearsi a quelle americane interrompendo molte delle partnership con Teheran. La Germania continua invece a guadagnare miliardi in importanti scambi con gli iraniani, tanto da dichiarare nel 2007 la sua reticenza a condividere le informazioni riguardo ai 50 nomi appartenenti alla lista nera di società e individui cui congelare i patrimoni perché in illeciti affari con l’Iran (leggasi forniture legate al nucleare).
Solo dalla Gran Bretagna ci si potrà attendere una condivisione di una possibile decisione americana d’imporre sanzioni contro il settore energetico iraniano. Mentre i paesi che tenderanno a sfilarsi non faranno altro che indebolire l’Occidente e rafforzare il regime khomeinista sulla questione nucleare e negli altri fronti aperti con Teheran.