Cheney è un duro e adulto statista, Obama un giovane e banale moralista

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Cheney è un duro e adulto statista, Obama un giovane e banale moralista

22 Maggio 2009

«Due diversi approcci per i detenuti di Guantanamo, senza punti d’incontro». Il titolo dell’editoriale di oggi del Wall Street Journal sintetizza bene il significato dello scontro a distanza tra Barack Obama e Dick Cheney, che ieri ha monopolizzato l’attenzione dell’opinione pubblica americana. Mai come in questo caso, infatti, le due opposte visioni sul ruolo degli Stati Uniti post 9/11 sono emerse così nitidamente.

Da una parte, quella di un presidente appena eletto con ampio margine, estremamente popolare (almeno per il momento), che può contare su una netta maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Dall’altra, quella di un vicepresidente uscente, numero due di un’amministrazione che ha concluso il suo secondo mandato con indici di consenso molto bassi, esponente di un partito reduce da due pesanti sconfitte elettorali (2006 e 2008) e in profonda crisi d’identità.

Con queste premesse, sarebbe stato lecito attendersi una vittoria schiacchiante di Obama. E naturalmente è proprio questa l’interpretazione prevalente nei mainstream media di tutto il mondo. Provate invece a fare uno sforzo, leggendo il testo integrale dei due discorsi (quello di Obama e quello di Cheney) e molto probabilmente scoprirete una realtà molto diversa da quella che vi hanno descritto. Leggere i due discorsi – invece di vederli in televisione o sentirli per radio – aiuta a concentrarsi sul significato delle parole e dei concetti, dimenticandosi per un attimo delle brillanti capacità oratorie di Obama e del tono monocorde e secco che è da sempre il trademark di Cheney.

Come scrive Bill Kristol sul Weekly Standard (che infatti i due discorsi li ha letti, non ascoltati), «quello di Obama è il discorso di un giovane senatore che una volta era professore part-time di legge, banalotto e moralisteggiante, vago e astrattamente preudo-intellettuale», mentre quello di Cheney è «il discorso di un adulto, di un uomo di governo, di uno statista – sobrio, realistico e concreto – che difende la sua nazione e i suoi pubblici ufficiali, con un’acuta consapevolezza delle scelte che si è costretti a fare e la volontà di prendersi le responsabilità di queste scelte».

Ora, non c’è dubbio Kristol sia “di parte”, visto che il fondatore del Weekly Standard è uno degli ultimi esponenti di una razza ormai in via d’estinzione, quella di chi non pensa che l’amministrazione Bush sia stata la causa di tutti i problemi che affliggono il pianeta, dal climate change all’influenza suina. È altrettanto vero, però, che nelle sue parole c’è un fondo – piuttosto solido – di verità.

Delivery a parte, il discorso di Obama è sembrato piuttosto fumoso, quasi privo di consistenza interna, tutto teso alla ricerca di una improbabile linea di galleggiamento tra realismo politico obbligatorio e utopie progressive necessarie a sedare la rivolta in corso della sua base elettorale. In questo senso, Cheney partiva con un enorme vantaggio. Senza l’ansia di dover blandire l’elettorato, il vicepresidente si è potuto concedere il lusso di dire la sua verità. Intrappolato nella “campagna elettorale permanente” che ha finora contraddistinto tutta la sua carriera, invece, il presidente sembra avere grandi difficoltà a compiere il salto da uomo politico a presidente.

Come ha scritto ieri Mitt Romney (non certo un repubblicano “estremista”) su The Corner, «il vicepresidene Cheney è stato il bersaglio preferito di ogni mezzo d’informazione, dalla stampa alla satira. Eppure oggi ha parlato senza pensare alla politica, ma provando a rispettare costantemente la verità. Al contrario, Obama continua a essere aggrappato alla sua campagna elettorale. Ha detto che l’ultima cosa che fa prima di andare a letto la notte è pensare alla sicurezza dell’America. C’è una grande differenza con Cheney. Lui, quando c’era di mezzo la sicurezza dell’America, a dormire non ci andava proprio».