Chi demonizza Trump a spese degli Stati Uniti
10 Novembre 2017
Da un anno negli Stati Uniti è in corso uno scontro, ancora non del tutto decifrato, che impressiona per intensità, ferocia (per alcuni sarà politicamente letale), varietà e numero dei contendenti, conseguenze sul piano internazionale. Dal giorno del voto la contesa fra Trump e i suoi nemici, già aspra in campagna elettorale, invece di esaurirsi in un movimento centripeto verso l’unità attorno al nuovo presidente, com’è costume nazionale e com’era sempre accaduto in passato, si è allargata, incattivita, mondializzata.
Il nucleo dello scontro è politico-ideologico e soprattutto di potere. Per più di un trentennio a Washington la scena è stata dominata da due dinastie, i Bush che tra il 1980 e il 2008 albergano per vent’anni alla Casa Bianca (tre presidenze e due vicepresidenze) e i Clinton (due presidenze dal 1992 al 2000 per Bill, otto anni da senatore e quattro da segretario di stato dal 2001 al 2013 per Hillary). Nel 2016 tutte e due le dinastie tentano di riprendersi la Casa Bianca dopo l’intervallo di Obama, prima avversario (nel 2008 schianta alle primarie la predestinata Hillary) e poi stretto alleato dei Clinton: tanto i Bush con Jeb, il primogenito secchione che raccoglie la più alta montagna di quattrini fra gli aspiranti repubblicani prima di dissolversi in un soffio di fronte ad avversari molto più tosti, quanto i Clinton con la rediviva Hillary, che strappa fra trucchi e controversie la nomination democratica ma non capisce la forza di Trump, perdono male la corsa precipitando così verso il declino. Nessuna delle due dinastie però sembra accettare la sorte disegnata dagli elettori – e per la verità neppure Obama, che anzi dà l’impressione di voler fondare una dinastia in proprio (la candidata Michelle). La demonizzazione di Trump, morale prima ancora che politica, appare la mossa giusta per mantenere con sé seguaci e reti di comando e per questa via restare in sella.
E’ uno sviluppo inedito nella storia americana: di solito i leader perdenti, come anche gli ex presidenti, si ritirano dietro le quinte, i partiti si riorganizzano e si riparte con nuovi assetti di idee e di comando. Ma con le dinastie, che possono contare su più figure (intercambiabili?) di leader, le cose cambiano: ideologia e mutazioni socioeconomiche possono controbilanciare, se ci sono nuove facce di famiglia da mettere in campo, la sconfitta politica. Ed è quest’ultima – e la resistenza ad ammetterla – in realtà il motore di tutto.
Il trentennio delle dinastie porta con sé un bilancio politico che per gli americani (e l’Occidente) si rivela gravoso su molti fronti. Dopo l’epocale sconfitta in Vietnam sono arrivate in poco più di vent’anni tre guerre perdute (Somalia 1993-4; l’intervento in Iraq del 2003 che consegna il paese al controllo dell’Iran; l’azione in Siria contro Assad che però rimane al potere sotto la protezione di Russia e Iran), una quasi perduta (Afghanistan dal 2001), due fallite (primo intervento in Iraq, Libia 2011) con la duplice conseguenza di un’influenza nel Medio Oriente ridotta ai minimi termini e di una drammatica caduta di reputazione. Il secondo fronte di danni è il rapporto con la Russia. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica gli Stati Uniti hanno l’occasione di integrare la seconda potenza militare del mondo, espressione di uno dei grandi stati-civiltà d’Europa, nel sistema di alleanze dell’Occidente e la sprecano con una sequenza di promesse non mantenute (l’espansione della Nato negli stati dell’ex Urss), sottovalutazioni storicamente inconsapevoli (“una pompa di benzina con attorno uno stato” così definiva la Russia il senatore McCain), avidità da business (il miraggio di trarre benefici dalla grande svendita dell’energia attuata negli anni di Eltsin e anche dagli asset di paesi come l’Ucraina: l’inchiesta su Manafort mostra l’affollarsi di lobbisti americani intorno ai leader che si succedono a Kiev dopo la rivoluzione arancione, Yanukovich incluso), ipocrisie sul tasso di autoritarismo vigente a Mosca.
I risultati si vedono con il progressivo consolidarsi di Putin al comando: in un mondo dove la credibilità americana è in costante calo, la Cina estende le sue ambizioni di player mondiale e la sua rete di alleanze, un numero crescente di potenze regionali – un tempo alleate degli Usa – gioca in proprio, l’ostilità verso la Russia implica costi pesanti, soprattutto nell’arco di crisi che dalla Libia arriva all’Afghanistan. Il terzo fronte di danni riguarda la Cina che con il consenso dell’America di Clinton entra nel mercato mondiale senza condizioni e con grandi vantaggi, si presume nella convinzione che il basso profilo imposto da Deng in ambito internazionale (tanti affari, poche ambizioni politiche) sarebbe durato per sempre. In realtà con Xi Jinping la strategia muta nel profondo, diventa assertiva su scala mondiale e rivela un’ispirazione di potenza globale, una spinta al primato che pone la Cina come rivale in ascesa di un’America in declino. Tanto con la Russia quanto con la Cina l’approccio americano mostra eccessi di sicurezza o sottovalutazioni incaute del potenziale altrui; il dramma è che gli errori si sommano: nel momento in cui la Russia, pressata dalle sanzioni, e la Cina, pronta a sfide mondiali, scoprono il vantaggio di muoversi in sintonia, nonostante i contrasti storici e le rivalità geopolitiche (in Asia Centrale soprattutto), si riducono gli spazi strategici e aumentano i costi politici per l’azione americana. Le dinastie ribaltano così il capolavoro fatto da Kissinger negli anni 70: gli Stati Uniti perdono la posizione centrale di bilanciatore fra le due altre potenze e la cedono – quasi sbadatamente – alla Cina.
Trump, in fondo, non è che l’esito di questo generale fallimento politico, la cambiale messa all’incasso dagli elettori dopo una lunga sequela di errori. La debacle politica non è però solo frutto di insipienza, è anche il prezzo – mal calcolato, eccessivo – pagato per un obiettivo, la globalizzazione, che all’epoca di Clinton appare un grandioso preludio di ricchezza e pochi anni dopo, con la crisi, si rivela un esito sbilanciato e velenoso: l’integrazione dei mercati, abolendo in gran numero, quasi senza passaggi intermedi, barriere commerciali e quindi insediamenti territoriali, agevola le economie emergenti (Cina in testa), il boom della tecnologia e le operazioni della finanza ma penalizza classi medie e lavoratori dell’Occidente. In questo movimento dinamico e convulso che trasforma il mondo le dinastie trovano alleati (tra i privilegiati della globalizzazione) e una potente ideologia di sostegno – di fatto un blocco sociale coeso che permette loro di resistere al verdetto popolare.
Le imprese innovative che trainano la rivoluzione digitale formando l’infrastruttura tecnologica dell’economia globale, di cui poi a feedback sfruttano le ricadute per la propria espansione in tutto il mondo, le società finanziarie che dall’integrazione dei mercati traggono la spinta per una crescita potente ed esplosiva, le imprese dell’energia sono insieme i comparti economici che creano maggiore ricchezza e i migliori supporter delle dinastie. A sincronizzare questi soggetti nell’espansione globale dei mercati opera, come guida mentale e schema architettonico, un’ideologia forte che si potrebbe definire cosmopolitismo individualista: i territori perdono importanza, le comunità di vita evaporano, conta solo massimizzare il benessere individuale. E’ la filosofia degli anni 90 e del cambio di millennio, della finanza arrembante, ma anche della tecnologia digitale che eleva ognuno a fonte offrendo un’audience a scala illimitata: è una costellazione di successo e il cosmopolitismo individualista si diffonde, deborda dall’economia al mondo sociale, si tramuta in un’ideologia dei diritti personali che proliferano e colonizzano – in una sorta di bricolage dell’identità – ogni angolo dell’esistenza, dalla vita di coppia ai consumi, dai viaggi all’alimentazione.
Il punto cruciale non è tanto l’incremento di complessità che si trasmette all’azione collettiva – comunque un fatto di rilievo – quanto la pretesa di progresso morale che l’ideologia dei diritti esprime: più tutele alla persona, più felicità collettiva, più cogenza del sistema di idee che assicura un tale risultato. Si introduce nella vita collettiva una divaricazione morale che si aggiunge a quella economica; tuttavia, quando una parte della società si autoassegna una patente di superiorità morale, compaiono paradossi: i cosmopoliti ricchi fanno la predica ai provinciali poveri (i deplorevoli senza denti di Hillary e Hollande) che rimangono attaccati alla tradizione, non comprendono la cascata dei nuovi diritti e mostrano istinti razzisti perché non fanno accoglienza. Ma le ricadute benefiche non toccano solo ai cosmopoliti: se ne giova anche quella porzione di media mainstream che spiega come i diritti vanno messi in pratica e – per la fiducia acquisita nel tempo – è in grado di distribuire le patenti di progresso morale. Nell’America di oggi, così lacerata, il mestiere di autorità morale è un privilegio prezioso e per difenderlo si può arrivare, come sta accadendo in qualche testata e in qualche università, all’ostracismo delle idee e persino allo squadrismo intellettuale (esempio: le statue di Colombo abbattute).
Dinastie, ideologi dei diritti e vincenti della globalizzazione hanno molti vantaggi da perdere e ancora più risorse da mobilitare per resistere all’ira di chi patisce la globalizzazione nel portafoglio e nell’autostima: organizzare l’accerchiamento di un presidente è un compito alla portata. La lotta è feroce e rischia di condurre alla paralisi l’azione politica degli Stati Uniti.