
Chi dice che “patria” e identità” non hanno radici spirituali non ha letto Karol Wojtyla

14 Maggio 2019
Nei diversi cicli che si presentano studiando la storia, ci si imbatte costantemente in due tensioni opposte: quella verso l’identità e la sua fuga. Già nelle epoche antiche infatti si avvertivano dei forti periodi di apertura alternati a chiusure. Oggi stiamo evidentemente vivendo un periodo di tensione internazionale, o – come sarebbe meglio dire – cosmopolita – in cui un fortissimo senso di appartenenza supernazionale ci spinge a rigettare l’idea di Nazione finanche a sentirci, secondo alcuni, “cittadini del mondo”.
Una spinta che risente sicuramente dei trascorsi del secolo scorso, nel quale le generazioni che ci precedettero assisterono ad un secolo di cataclismi, guerre, ferocità, e le applicazioni più intense della Politica. A questa generazione apparteneva indubbiamente uno dei grandi protagonisti che ebbe la fortuna di vivere quelle esperienze per riportarle alla fine del secolo e scavalcarlo per arrivare nel nuovo millennio. Giovanni Paolo II, al secolo Karol Wojtyla, divenuto Papa appena dopo uno dei pontificati più brevi della storia, tanto da rendere onore con la scelta del nome al suo predecessore, Giovanni Paolo.
Proprio a lui, che attraverso tanta storia, possiamo chiedere come confrontarci con questo millennio di disillusioni e riappropriaci di una identità che ci sfugge ogni giorno di mano e sembra quasi perduta tra facili rivendicazioni di populismo in entrambe le direzioni. Come Papa ebbe molto a scrivere di Magistero, ma fin dalla gioventù scrisse una quantità incredibile di materiale, soprattutto poesie e opere teatrali.
Con tanta forza egli sosteneva infatti in gioventù una vocazione patriottica pari a quella spirituale: «Quando penso ‘Patria’ – esprimo me stesso, affondo le mie radici,/ è voce del cuore, frontiera segreta che da me si dirama verso gli altri,/ per abbracciare tutti, fino al passato più antico di ognuno;/ da questo emergo… quando penso ‘Patria’ – quasi celando in me un tesoro./ Mi chiedo come accrescerlo, come dilatare lo spazio che esso riempie» (Pensando Patria… 1974).
Ma cos’era questa Patria alla quale affidava tanto impeto dell’animo? Quello che ci torna utile adesso è un suo volume “Memoria e identità. Conversazioni a cavallo dei millenni” nel quale, memore della sua esperienza di gioventù, tra il totalitarismo comunista e l’invasione tedesca, fornisce la sua visione identitaria profondamente connaturata alla storia polacca.
«L’espressione “patria” si collega con il concetto e con la realtà di “padre” (pater). La patria in un certo senso si identifica con il patrimonio, cioè con l’insieme di beni che abbiamo ricevuto in retaggio dai nostri padri. […] La patria dunque è l’eredità e, nello stesso tempo, è la situazione patrimoniale derivante da tale eredità; ciò riguarda anche la terra, il territorio. Ma più ancora il concetto di patria coinvolge i valori e i contenuti spirituali che compongono la cultura di una data nazione [e infatti …] persino quando i Polacchi furono privati del territorio e la nazione fu smantellata, non venne meno in loro il senso del patrimonio spirituale, della cultura ricevuta dagli avi».
Proprio su questo aspetto dell’offesa alla Patria, l’allora arcivescovo di Cracovia ammoniva i propri fedeli con intense omelie, nelle quali esercitava tutto il proprio carisma e potere letterario: «Debole è il popolo quando acconsente alla sconfitta, quando/ dimentica la sua missione di vegliare fino a che/ giunga l’ora./ Le ore ritornano sempre sul grande quadrato della storia…».
Di più egli analizzò l’aspirazione dell’autocoscienza dell’Uomo scorgendo l’ineluttabile Rivelazione di Cristo nella affermazione dell’identità del popolo polacco: «la Chiesa ha portato alla Polonia Cristo, cioè la chiave per la comprensione di quella grande e fondamentale realtà che è l’uomo. Non si può infatti comprendere l’uomo fino in fondo senza il Cristo. O piuttosto l’uomo non è capace di comprendere se stesso fino in fondo senza il Cristo. Non può capire né chi è, né qual è la sua vera dignità, né quale sia la sua vocazione, né il destino finale. Non può capire tutto ciò senza il Cristo. E perciò non si può escludere Cristo dalla storia dell’uomo in qualsiasi parte del globo, e su qualsiasi longitudine e latitudine geografica. L’esclusione di Cristo dalla storia dell’uomo è un atto contro l’uomo. Senza di lui non è possibile capire la storia della Polonia, e soprattutto la storia degli uomini che sono passati e passano per questa terra. Storia degli uomini. La storia della Nazione è soprattutto storia degli uomini. E la storia di ogni uomo si svolge in Gesù Cristo. In lui diventa storia della salvezza».
Il tentativo delle forze allora al potere di riscrivere la storia della Polonia, estromettendo il messaggio salvifico di Cristo, contro la tradizione civile che fino ad allora le generazioni avevano tramandato, gli diede lo spunto per meditare ancor più a fondo sul rapporto tra il singolo uomo e la propria nazione: «se è giusto capire la storia della nazione attraverso l’uomo, ogni uomo di questa nazione, allora contemporaneamente non si può comprendere l’uomo al di fuori di questa comunità che è la nazione. È naturale che essa non sia l’unica comunità, tuttavia è una comunità particolare, forse la più intimamente legata alla famiglia, la più importante per la storia spirituale dell’uomo. Non è quindi possibile capire senza Cristo la storia della Nazione polacca – di questa grande millenaria comunità – che così profondamente decide di me e di ognuno di noi. Se rifiutiamo questa chiave alla comprensione della nostra Nazione ci esponiamo ad un equivoco sostanziale. Non comprendiamo più noi stessi. È impossibile capire senza Cristo questa Nazione dal passato così splendido e insieme così terribilmente difficile»
Insiste tanto sull’aspetto spirituale, perché «[…] nel concetto stesso di patria è contenuto un profondo legame tra l’aspetto spirituale e quello materiale, tra la cultura e il territorio. Il territorio strappato con la forza ad una nazione diventa, in un certo senso, un’implorazione ed anzi un grido rivolto allo “spirito” della nazione stessa. Lo spirito della nazione allora si desta, vive di una vita nuova e lotta perché siano restituiti alla terra i suoi diritti».
Scorgiamo dunque un collegamento trascendente dal nucleo familiare, col suo ruolo chiave nella dottrina cattolica, alla comunità, più o meno ampia che sia, che funge da canale per arrivare ancora più in alto, proprio al Creatore, dal Quale i Dieci Comandamenti, in cui il Sommo Pontefice individuava una implicita difesa della Patria di ciascuno, precisamente nel: «quarto comandamento, il quale ci impegna ad onorare il padre e la madre. È infatti uno di quei sentimenti che la lingua latina comprende nel termine pietas […]. Il patriottismo contiene in sé questo genere di atteggiamento interiore [di venerazione per il Dio Creatore], dal momento che anche la patria è per ciascuno, in un modo molto vero, una madre. Il patriottismo spirituale che ci è trasmesso dalla patria ci raggiunge attraverso il padre e la madre, e fonda in noi il corrispettivo dovere della pietas […] Patriottismo significa amore per tutto ciò che fa parte della patria: la sua storia, le sue tradizioni, la sua lingua, la sua stessa conformazione naturale. […] La patria è il bene comune di tutti i cittadini e come tale è anche un grande dovere».
Come già detto queste parole non costituiscono Magistero, non sono investite di infallibilità papale, ma sono estremamente importanti e chiare per comprendere come ci si possa collegare da un naturale senso di appartenenza interno alla famiglia e alla propria comunità di appartenenza, anche in un senso spirituale che ci unisca, quale è la religione.
Ci forniva anche l’idea di nazione, collegata proprio a quel ruolo generatore inconfondibile e insostituibile proprio dei genitori: «Il patrimonio e, in seguito, la patria sono dunque strettamente uniti dal punto di vista concettuale con il generare; ma anche il termine “nazione” ha un suo rapporto, dal punto di vista etimologico, con il nascere. — Col termine “nazione” si intende designare una comunità che risiede in un certo territorio e che si distingue dalle altre comunità per una propria cultura. La dottrina sociale cattolica ritiene che tanto la famiglia quanto la nazione siano società naturali, e quindi non frutto di semplice convenzione. Perciò nella storia dell’umanità esse non possono essere sostituite da nient’altro».
Arrivato quindi a intravedere le sfide del nuovo millennio, tra le opposte tensioni di identità e cosmopolitismo, ammoniva: «il XX secolo non testimonia forse una diffusa spinta ad avanzare nella direzione di strutture sovranazionali, o addirittura del cosmopolitismo? E […] le nazioni piccole, per sopravvivere, [non] devono lasciarsi assorbire da strutture politiche più grandi? […] Sembra tuttavia che come la famiglia, anche la nazione e la patria rimangano realtà non sostituibili. La dottrina sociale cattolica parla in questo caso di società “naturali”, per indicare un particolare legame, sia della famiglia che della nazione, con la natura dell’uomo, la quale ha una sua dimensione sociale. […] L’identità culturale e storica delle società è salvaguardata e alimentata da quanto è racchiuso nel concetto di nazione. Ovviamente, un rischio dovrà essere assolutamente evitato: che questa insostituibile funzione della nazione degeneri in nazionalismo. […] Come ci si può liberare da un tale pericolo? Penso che il modo giusto sia il patriottismo. Caratteristica del nazionalismo, infatti, è di riconoscere e perseguire soltanto il bene della propria nazione, senza tener conto dei diritti delle altre. Il patriottismo, invece, in quanto amore per la patria, riconosce a tutte le altre nazioni diritti uguali a quelli rivendicati per la propria ed è perciò la via per un ordinato amore sociale».
Chi scrive non condivide questa idea di nazionalismo, che sembra più corrispondere ad una aberrazione, ma si può trovare una massima finale, che Giovanni Paolo II esternò all’Assemblea dell’Onu il 5 ottobre 1995 per difendere «il diritto all’esistenza [che] implica, per ogni nazione, anche il diritto alla propria lingua e cultura, mediante le quali un popolo esprime (..) sua originaria “sovranità” spirituale»