Chi getta fango sulla nazione rappresenta la vera anomalia italiana

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Chi getta fango sulla nazione rappresenta la vera anomalia italiana

Chi getta fango sulla nazione rappresenta la vera anomalia italiana

03 Maggio 2011

Dall’inizio del maggioritario e dalla discesa in campo di Berlusconi autorevoli opinionisti si lamentano dell’irriducibile antagonismo italiano, del Paese diviso tra berlusconiani e antiberlusconiani,“due nazioni nemiche e ferocemente ostili”, come scrive Angelo Panebianco sul Corriere dell’11 aprile, riprendendo un giudizio di Michele Salvati. Anche se sono cambiate le procedure, il livello di scontro non è però maggiore di quello della prima Repubblica, rimpianta come un’oasi felice, dimenticando non solo il terrorismo e il cadavere di Moro, ma il Pci alleato del Patto di Varsavia contro l’Italia alleata della Nato.

Allora vi erano davvero due nazioni nemiche. Forse Panebianco ha dimenticato gli attacchi che il Pci lanciava allora a democristiani, socialisti, repubblicani e liberali, decapitati infine dalla ghigliottina dei magistrati nel tripudio della macchina da guerra di Occhetto. L’antagonismo attuale non è poi diverso da quello che si riscontra in altre democrazie. Il protagonismo politico dei giudici, l’arma principale della sinistra per delegittimare il centrodestra, è un fenomeno europeo ripreso dagli Stati Uniti, dove però i giudici non sono sbilanciati a sinistra come da noi e cercano di fermare la riforma sanitaria di Obama, ritenuta socialista e, quindi, anticostituzionale. Il fenomeno dei giudici è internazionale: Baltasar Garzon, il giudice spagnolo entrato nello star system, sospeso dal Csm spagnolo un anno fa, in questi giorni tiene seminari a Berkeley University come una vera stella.

Finita la lotta ideologica della guerra fredda, la nostra democrazia, come le altre, si è americanizzata: gli attacchi sono diventati personali e i protagonisti sono i media, i magistrati e gli avvocati. La democrazia è il sistema di governo che istituzionalizza il conflitto e il conflitto è anche un grande business (coinvolge media, avvocati, magistrati, fotografi, scrittori, showman, registi, attori, cantanti), poiché – come scrive un politologo americano – il business della democrazia è la democrazia. I nostri opinionisti e giornalisti non seguono molto cosa accade fuori d’Italia: per l’Economist la polarizzazione politica negli Stati Uniti è giunta al punto da rischiare di paralizzare il sistema. La polemica sul certificato di nascita di Obama è uno degli aspetti più soft della lotta, la strage di Tucson il più grave. La politica americana è cambiata dagli anni ’60 ed è gradualmente aumentata l’intensità del conflitto: attentati ai presidenti (Kennedy ucciso, Reagan gravemente ferito), Nixon costretto a dimettersi, durante la guerra in Vietnam, dopo una campagna giornalistica basata su registrazioni fatte di nascosto alla Casa Bianca, Clinton costretto a difendersi dall’accusa di avere avuto un rapporto sessuale con una stagista. Nemmeno nel Regno Unito, sebbene più flemmatico, la competizione è guidata dal fair play, come i nostri affabulatori amano raccontarci. La democrazia contemporanea è il luogo dello scontro, non della tranquilla discussione tra élite che, tra una tazza di tè e l’altra, discutono come risolvere i problemi, chiedendo scherzosamente alle signore presenti, come in quadretto anni ‘50, se sappiano, per caso, come funziona la borsa.

Esiste però un’anomalia italiana non riscontrabile in alcuna democrazia occidentale, quella di screditare l’immagine del paese per criticare Berlusconi. E’ un vizietto, come lo chiama Antonio Polito, che conosce il mondo anglosassone, osservando sul Corriere del 18 aprile come ormai si sia imposta una retorica, per la quale gli oppositori di Berlusconi sembrano avere tutti un amico all’estero che chiede stupito come mai gli italiani non si liberino di Berlusconi. Polito cita Tim Parker sul New York Times, un giornale che è ormai il megafono americano di Repubblica, via Alexander Stille, un déraciné, cittadino statunitense, figlio di un’americana e di un ebreo russo-americano, corrispondente del Corriere dagli States e poi direttore per un breve periodo, che è l’animatore della campagna contro l’Italia in America. Berlusconi è solo un pretesto  di questa campagna piena dei soliti luoghi comuni sull’Italia cattolica, corrotta, mafiosa, disgregata, insomma, il malato d’Europa, come la chiama l’Economist, un altro giornale amico del nostro paese. Tipico il dibattito su Decadence and Democracy in Italy sul NYT del 10 febbraio 2011, col solito Stille, un professore di criminologia di Oxford, secondo il quale il 70% degli italiani sono ostili al Popolo della Libertà, più tre signore che si lamentano dell’umiliante condizione della donna italiana. L’attacco più duro non è però a Berlusconi, ma all’Italia ed è del 1° aprile, in un briefing in cui il NYT dà notizia di centinaia di migranti nordafricani fuggiti da Lampedusa. Nel link Italy, il nostro paese viene descritto con l’Enciclopedia Britannica come una nazione fallita, una collage di culture diverse in un paesaggio estremamente gradevole. Un bel paese del Mediterraneo caotico, frantumato, corrotto, amorale, che forse avrebbe bisogno di un aiutino straniero per fare fruttare a dovere le sue ricchezze, insomma, un po’ di nation building, why not? È il discredito dell’Italia come nazione il vero obiettivo dei giornali inglesi e americani che aprono le braccia agli oppositori di Berlusconi.

Questa anomalia è tutta italiana. I professori pre-pensionati in massa dalla Thatcher non andarono mai in delegazione a Parigi o New York a chiedere aiuto. Né adesso che il governo Cameron ha aumentato le tasse universitarie a 9.000 euro e pianifica di privatizzare l’università, considerata una fabbrica di disoccupati, gli intellettuali britannici chiedono aiuto all’estero. Difficilmente si sentirà un inglese, un americano, un francese arrabbiato con Cameron, Obama e Sarkozy criticare la propria nazione. Abbiamo visto McCain, il rivale di Obama, volare a Bengasi per incontrare i ribelli e chiamarli “miei eroi”, Hillary Clinton votò la guerra in Iraq e applaudì al Congresso il discorso di Berlusconi, che certo non le stava simpatico. La democrazia è un sistema dove il conflitto è istituzionalizzato, ma la lotta per quanto spietata contro gli avversari, non implica mai il discredito della propria nazione. Questo è un vizio tutto italiano, né è spiegabile, come suggerisce Panebianco, con la storia italiana.

Quasi tutte le democrazie occidentali hanno un passato di scontri sanguinosi: la Gran Bretagna ha la guerra civile del ‘600, senza contare – come ricorda Polito – la sottomissione violenta di Irlanda e Scozia, gli Stati Uniti hanno avuto la guerra civile tra Nord e Sud che causò più morti di tutte le guerre americane, la Spagna ha avuto la guerra civile del ‘36. In confronto, la cosiddetta guerra civile italiana del 1944-45 non fu neppure una vera e propria guerra civile; fu la lotta di due minoranze alleate a due eserciti stranieri che combattevano per decidere il destino dell’Italia. Nessuna nazione festeggia i vincitori della guerra civile. La festa nazionale degli Stati Uniti è il 4 luglio, il giorno dell’Indipendenza. Immaginiamo cosa sarebbe accaduto in America se, ogni anno, il Nord avesse festeggiato la vittoria sul Sud. Si sarebbe innescata una spirale di odio. I nordisti, che arrivarono a radere al suolo le città sudiste conquistate, finita la guerra, riconobbero il valore dei soldati sudisti. Un film come ‘Via col vento’, dove si spiegano le ragioni del Sud e si celebra il valore militare dei sudisti, sarebbe impossibile nell’Italia del 2011.

Da noi si continua a festeggiare il 25 aprile, una festa sentita solo da una parte, che per l’occasione scende in piazza con le bandiere rosse ed espelle dalle piazze tutti coloro che vorrebbero celebrarla e non sono di sinistra, giungendo pure, come è accaduto pochi giorni fa, a fischiare la brigata ebraica. Poiché il 25 aprile, nonostante gli sforzi di Ciampi e Napolitano, non è diventata una festa di tutti, una festa, che tra l’altro è collegata all’uscita non certo vittoriosa dell’Italia dalla seconda guerra mondiale, sarebbe ragionevole fare diventare festa nazionale il 17 marzo, la festa dell’Unità italiana istituita quest’anno, che, come abbiamo visto, è sentita come momento unificante dalla maggioranza degli italiani. L’Italia ha bisogno di un nuovo inizio. Gli italiani possono vivere tranquillamente con ricordi diversi della seconda guerra mondiale, ma è importante sentano come un bene comune irrinunciabile l’unità della nazione. L’Italia ha bisogno di futuro e di speranza. Per questo sarebbe opportuno anche cambiare l’articolo 1 della Costituzione e, concordo con Panebianco, che a fondamento della nostra democrazia dovrebbe essere messa la libertà, che non è contenuta nel concetto di democrazia, tanto da dovere precisare – come osserva il politologo bolognese – che la forma di democrazia che armonizza democrazia e libertà è la democrazia liberale, completamente diversa dalla democrazia popolare, consigliare, etc.

Diversamente da Panebianco, ritengo però che insieme alla libertà dell’individuo debba essere preservata anche la libertà del popolo, che può insorgere, come è accaduto tante volte nella storia, per liberarsi da un dominio straniero, ottenere l’indipendenza e affermare la propria sovranità. Anche per un individualista come Hobbes, l’individuo in generale, come l’uomo in generale, è un nonsense: esistono Peter e John, e si definiscono come cittadini rispetto alla comunità di appartenenza. Il popolo non è un concetto astratto, ma un termine giuridico che indica l’insieme degli individui che sono cittadini di uno stato. Un insieme di individui  hanno poi  in comune una terra, una lingua, una religione, cultura e tradizioni verso le quali hanno un senso di appartenenza e per questo sono una nazione. Come ha osservato Galli della Loggia il 20 aprile sul Corriere, in Europa stiamo assistendo a una frattura tra élite internazionaliste e popoli, che ora con Marine Le Pen e i “Veri Finandesi”, manifestano, come è già accaduto in Italia, in Danimarca, in Olanda, in Ungheria, l’opposizione a un’Unione europea indifferente ai loro sentimenti e problemi. Mentre grandi costruzioni multiculturali come gli Stati Uniti sono in crisi, un antica nazione come la Cina sta per sostituirli nella leadership economica.

Come abbiamo visto in questa strana guerra di Libia, quando ci siamo trovati di fronte al problema dei migranti, l’Europa si è defilata. Il protagonismo di Gran Bretagna e Francia in Libia, dimostra che sono rinate le nazioni. Teniamocela cara quest’Italia, perché di fronte alle nuove sfide che questo secolo ci prepara potremo contare solo su di noi e avremo bisogno di tutta la nostra unità.