Chi governa ha il dovere di risolvere il problema della giustizia
21 Ottobre 2009
Bisogna riformare la giustizia. I processi sono troppo lenti. Occorre ripristinare la certezza della pena.
E’ da molto prima che Berlusconi scendesse in campo che frasi come queste ritornano periodicamente al centro del dibattito politico, spesso sull’onda di un’inchiesta che viene a toccare gli interessi di personaggi molto in vista.
Piuttosto, da quando il Cavaliere (con i suoi processi) è al centro della scena politica, si sente parlare anche di toghe rosse, di procure politicizzate, dei privilegi dei magistrati e così via, ma a monte di ogni discorso e di ogni ragionamento in tema di giustizia vi è sempre lo stesso punto di partenza: tutti avvertono la necessità di modificare un sistema che non funziona.
Oggi si profila l’ennesima opportunità di cambiamento. Questa volta l’hanno offerta la bocciatura del lodo Alfano, le polemiche sulla Corte Costituzionale e sulla sua natura più politica che giurisdizionale, il maxi risarcimento Fininvest a De Benedetti ordinato dal giudice Mesiano.
Il Premier ha subito reagito e si è detto pronto a realizzare la sua tanto sbandierata riforma della giustizia, con interventi anche sulle norme dettate, in materia, dalla Costituzione. Ovviamente l’opposizione ha trovato di che lamentarsi, ma soprattutto, si sono messi di traverso anche tanti alleati, in coro con le Cariche Istituzionali: nessuna riforma costituzionale senza consenso bipartisan.
Ormai sono 15 anni che Berlusconi, nei suoi comizi, racconta alle platee la storia del pm che diventerà avvocato dell’accusa e che entrerà nella stanza del giudice con il cappello in mano, come il difensore di un qualsiasi imputato.
Si corre seriamente il rischio che anche chi ci aveva creduto davvero trovi ormai grottesca la promessa che il Presidente del Consiglio, per quanto si sia impegnato, non è mai riuscito a realizzare.
Eppure il Cavaliere la sua idea di giustizia l’ha ben chiara in mente. E pazienza se alla formazione di questa idea ha contribuito il trauma provocato dal celeberrimo avviso di garanzia recapitato nel corso del primo G7 che presiedeva, o il retaggio delle centinaia di procedimenti in cui è stato coinvolto dal 1993 ad oggi.
Berlusconi vuole una giustizia caratterizzata dalla parità tra accusa e difesa e dal rispetto delle garanzie dell’imputato. Vuole la separazione delle carriere e l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Vuole porre un freno allo strapotere dei pubblici ministeri e ripulire il Consiglio superiore della Magistratura dalle storture che derivano dalle influenze politiche delle correnti. Vuole l’immunità parlamentare, che per quanto la si possa criticare, nella nostra Costituzione c’è stata per più di quarant’anni.
Tutte queste cose, il Cavaliere le vuole prima di tutto per se stesso, ma ciò non toglie che la riforma che ha in mente si applicherebbe poi a tutti i cittadini.
Soprattutto ciò non toglie che il nuovo sistema potrebbe essere arricchito. Ad esempio con delle norme sull’organizzazione dei tribunali, il vero punto critico della nostra giustizia.
Si potrebbe ridisegnare completamente la geografia degli uffici, che sono ancora distribuiti sul territorio come ai tempi del Regno dei Savoia. Si potrebbe finalmente dare attuazione alla volontà dei cittadini, che in un ormai antico referendum, avevano prestato il proprio consenso ad un principio di civiltà, prima ancora che di giustizia: la responsabilità civile dei magistrati per gli errori che commettono (e che i cittadini pagano a carissimo prezzo).
In realtà il problema del metodo è solo una scusa. I politici (specie quelli di maggioranza) che invocano le riforme condivise sembrano dei medici capaci solo di diagnosticare un male molto grave, senza mai fornire una cura. Ciò che conta è il merito. Chi governa ha il preciso dovere di risolvere il problema della giustizia italiana, dimostrandosi pronto a cogliere i suggerimenti validi dell’opposizione, ma anche ad ignorare le critiche dilatorie e strumentali.
In ogni caso, alla fine giudicheranno i cittadini. Berlusconi ha promesso agli italiani di realizzare un sistema giurisdizionale che sappia coniugare le costose garanzie del nostro processo, con le esigenze di celerità e di certezza della pena e soprattutto con un rinnovato equilibrio tra i ranghi della magistratura giudicante ed inquirente.
Finora non ha neppure tentato concretamente di tradurre in realtà un simile proposito, che pure è sempre stato al centro di tutta la sua azione politica e anche della sua storia personale. Lasciarsi sfuggire anche quest’ultima occasione significa porre a repentaglio non solo l’esito dei suoi processi, ma soprattutto la sua credibilità.