Chi grida all’incostituzionalità della legge sospendi-processi sbaglia

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Chi grida all’incostituzionalità della legge sospendi-processi sbaglia

17 Giugno 2008

Quello che è stato chiamato il “lodo Maccanico”, e che tante polemiche ha suscitato al momento della sua presentazione prima e approvazione poi, viene ora riproposto per la sua approvazione parlamentare, sia pure attraverso la conversione di un decreto legge. E proprio sulla base della passata esperienza, che ha prodotto anche una sentenza della Corte costituzionale, si possono ora provare a svolgere delle pacate riflessioni e utili indicazioni.

Innanzitutto, c’è da dire che la norma che introduce una sorta di immunità istituzionale a favore delle cinque alte cariche dello Stato [che sono: Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio, Presidenti delle due Camere e Presidente della Corte costituzionale], escludendoli così dalla sottoponibilità a processi penali nel corso del loro mandato, trattasi di una misura transitoria collegata a certe prerogative di status istituzionale. I processi – qualora promossi – verrebbero così a essere sospesi per poi essere ripresi soltanto quando le alte cariche dello Stato fossero cessate dalla funzione. La disposizione, quindi, ha come obiettivo quello di tutelare l’esercizio del potere pubblico da possibili deviazioni giurisdizionali e di garantire così il prestigio delle istituzioni politiche. In tal modo, potrebbe essere consentita – come già avviene in diversi e numerosi casi – una deroga al principio di eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost.: in quanto, la diversità di trattamento riservata alle cinque alte cariche dello Stato anziché essere un ingiustificabile privilegio personale sarebbe, piuttosto, una garanzia che sorregge la funzione ricoperta a evitare, pertanto, che si possano produrre lesioni al prestigio delle istituzioni politiche e più in generale al bene dell’intero Paese. Questa parrebbe essere la ratio della norma, che deroga al principio di eguaglianza in virtù del criterio di ragionevolezza e del bilanciamento degli interessi. Ci si è poi chiesto come una sorta di tormentone: questa regola della “immunità istituzionale”, che verrebbe introdotta con legge ordinaria, dovrebbe piuttosto essere disciplinata con legge costituzionale? Non mi pare che prevalga in modo netto e sicuro una posizione rispetto all’altra. Anzi, semmai c’è da rilevare che in quanto legge ordinaria, questa potrà essere sottoposta a referendum abrogativo (come venne fatto la volta scorsa seppure poi non effettuato) e al giudizio di costituzionalità (come avvenne la volta scorsa): si tratta di strumenti di garanzia che non potrebbero essere in pieno attivati nel caso della legge costituzionale.

Come noto, il giudizio di costituzionalità si è già manifestato con riferimento all’art. 1 della legge n. 140 del 2003 (nota come “lodo Maccanico”, espressione adoperata addirittura dalla stessa Corte nel comunicato stampa con il quale annunciava la decisione presa): ed è stato un giudizio sulla incostituzionalità della norma. La Corte, però, si è limitata a dire l’essenziale senza arricchire il suo intervento di ulteriori richiami, quali eventuali obiter dictum oppure moniti e indicazioni rivolti al legislatore. Avrebbe, poi, potuto scrivere una sentenza additiva, ovvero una interpretativa di rigetto. Scelse, e fece bene, un ragionare lineare, asciutto, che non creasse ulteriori turbative.

Cosa ha detto la Corte costituzionale con la sentenza n. 24 del 2004? Preliminarmente, va ricordato che l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Milano non indicava solo l’art. 3 della Costituzione quale norma parametro violata dall’art. 1 della legge n. 140 del 2003; ma piuttosto si faceva riferimento anche agli articoli 101, 112, 68, 90, 96, 24, 11 e 117. La lunga elencazione degli articoli costituzionali (che si presumevano essere) violati stava lì quasi a voler dimostrare come quell’articolo di legge, a tutela delle alte cariche dello Stato, andasse a contrastare con l’impianto generale della Costituzione, relativamente sia alla prima parte dei principi fondamentali e dei diritti di libertà, che alla seconda parte relativa all’organizzazione della giustizia e al giusto processo. E’ come se il giudice a quo avesse detto: la norma sulla non sottoponibilità a processo penale a favore delle cinque cariche dello Stato non appare come in violazione (soltanto) di qualche articolo della Costituzione ma piuttosto del costituzionalismo, ovvero dell’architettura complessiva dei principi costituzionali che sorreggono l’intero impianto dell’ordinamento repubblicano. Insomma, esagerando e non poco, era come si chiedesse quasi una pronuncia che fosse degna di quella della Corte Suprema statunitense agli inizi dell’Ottocento (Marbury vs. Madison), che ha scolpito nel costituzionalismo l’idea della Costituzione come legge superiore.

A fronte di un siffatto scenario – accentuato e reso più manifesto nella ricca memoria presentata dalla parte civile, la CIR s.p.a – la Corte si è abilmente (e correttamente) sottratta dalla richiesta di scrivere una sentenza dalla portata per così dire “storica”, e si è piuttosto limitata a censurare la norma oggetto del giudizio di costituzionalità, peraltro senza sconfessare del tutto la ratio della norma stessa. Infatti: tra le prime affermazioni che si leggono nel Considerato in diritto della sentenza, dopo un’analisi delle tipologie delle sospensioni nel e del processo penale, vi è la seguente: «Ciò non significa che quello delle sospensioni sia un sistema chiuso e che il legislatore non possa stabilire altre sospensioni finalizzate alla soddisfazione di esigenze extraprocessuali, ma implica la necessità di identificare i presupposti di tali sospensioni e le finalità perseguite, eterogenee rispetto a quelle proprie del processo». E poco più avanti, la Corte afferma che quello della tutela delle cinque più alte cariche dello Stato, al fine del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche, «si tratta di un interesse apprezzabile che può essere tutelato in armonia con i principi fondamentali dello Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la protezione è strumentale». Qui, in questo passo, è ravvisabile, a mio avviso, il sostanziale ridimensionamento della problematica così come prospettata dalla ordinanza di rimessione e dalla parte civile: non siamo, quindi, in presenza di una violazione dei principi del costituzionalismo (ovvero dello Stato di diritto, come scrive la Corte), perché la prerogativa di tutela delle alte cariche istituzionali può convivere “in armonia” con quei principi.

La questione, pertanto, si sposta, nell’argomentazione del giudice costituzionale, dal nucleo forte dei principi costituzionali all’incidenza che la norma in esame può avere «sui principi del processo e sulle posizioni e sui diritti in esso coinvolti». Ed è su questo punto che la norma risulta costituzionalmente illegittima. Per due precisi motivi, contenuti nell’art. 24 Cost.: primo, perché «l’automatismo generalizzato della sospensione incide, menomandolo, sul diritto di difesa dell’imputato», il quale se volesse veder accertata la propria innocenza sarebbe costretto a dimettersi dalla carica «rinunciando così al godimento di un diritto costituzionalmente garantito»; secondo, perché «sacrificato è altresì il diritto della parte civile la quale […] deve soggiacere alla sospensione» del processo, senza potere avere giustizia. Richiamandosi alla sua stessa giurisprudenza, la Corte conferma che la stasi di un processo per un tempo indefinito e indeterminabile vulnera il diritto di azione e di difesa, e che la possibilità di reiterate sospensioni leda il bene costituzionale dell’efficienza del processo. A ciò, volendo, si potrebbe altresì aggiungere la violazione dei principi costituzionali del giusto processo fondati, tra l’altro, sulla ragionevole durata dello stesso.

L’art. 3 della Costituzione, invece, sarebbe violato non tanto per il regime di differenziazione riguardo all’esercizio della giurisdizione, ma piuttosto perché la norma «accomuna in unica disciplina cariche diverse non soltanto per le fonti di investitura, ma anche per la natura delle funzioni e distingue, per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai principi fondamentali della giurisdizione, i presidenti delle Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte costituzionale rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti». Affermazione precisa e rigorosa, che muove dall’assunto che i presidenti in questione svolgono funzioni diverse e pertanto non possono essere accomunati tra loro, e che sono formalmente primum inter pares, e quindi non possono godere di un trattamento differenziato e privilegiato rispetto ai loro colleghi, siano essi ministri o parlamentari.

La Corte non individua le ragioni dell’incostituzionalità della norma nella sua veste giuridica o nella sua natura ma esclusivamente nella sua struttura: siccome «la sospensione del processo è generale, automatica e non determinata, [allora] la questione è fondata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione». Punto e basta.  Quindi: la ripresentazione di una nuova legge, che tenesse conto delle argomentazioni della Corte costituzionale, è perfettamente lecita e legittima. Come ebbe a scrivere Sabino Cassese (prima ancora di diventare giudice costituzionale) sul Corriere della sera del 25 gennaio 2004, «si può pensare che una durata ragionevole della sospensione [dei processi] possa risolvere anche questo problema [di incostituzionalità]. Insomma, la strada imboccata dal Parlamento non è sbarrata». Si tratta, aggiungiamo noi, di saperla tracciare in maniera lineare, senza deviazioni e complicazioni.