Chi ha cacciato Berlusconi ora deve dimostrare di saper governare

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Chi ha cacciato Berlusconi ora deve dimostrare di saper governare

10 Novembre 2011

Governo tecnico sì o no? E’ il tormentone che da più di ventiquattr’ore anima le discussioni di Palazzo, le redazioni dei giornali, persino i pranzi e le pause caffè dell’italiano mediamente interessato alle sorti del suo paese. In un incessante altalenare di aspettative, prospettive e decisioni reali, che oggi valgono e domani chissà, vale la pena rispondere ad una sollecitazione venuta direttamente dal direttore e rispondere con franchezza: governo tecnico, sì. Innanzi tutto per arrendersi senza rendersi ridicoli ad una chiara evidenza: tutto è già deciso (aprire il sito del Corriere per credere). Poi, per biechi motivi personali: ci serve tempo per accettare di bere l’amaro calice di una sconfitta. Poi ancora, per bassi motivi di partigianeria: al centrodestra serve tempo per serrare i ranghi e ripartire da un nuovo progetto politico. Ma soprattutto perché in questa crisi eterodiretta dai palazzi delle istituzioni europee e da quelle segrete imperscrutabili che muovono i mercati, la tempistica e gli uomini fanno la differenza.

Spieghiamo meglio. Viviamo una crisi economica senza precedenti, almeno negli ultimi cinquant’anni, che ha messo il nostro paese sotto una forma di commissariamento europeo. È l’Europa che vuole scegliere chi deve stare alla guida del nostro paese – noi l’avevamo scelto, e anche con tutti i suoi limiti, ci andava bene, ma siamo stati costretti a rinunciarvi – ma loro, i “grandi” del mondo, appoggiati dai poteri finanziari di chissà dove e buona parte della stampa internazionale – hanno deciso che non andava bene, che non aveva abbastanza credibilità a causa dei “bunga bunga” (ma la storia farà mai giustizia di ciò?), che le misure di protezione economica messe in moto dal dirigismo di Tremonti (e non di Berlusconi) non erano sufficienti a garantire la solidità di un paese troppo indebitato e troppo frenato nella crescita. A poco importavano altri parametri politici ed economici: un governo democraticamente eletto che godeva di una stabile maggioranza, la solidità del sistema bancario, i tassi di disoccupazione tra i più bassi d’Europa… Dell’Italia non ci si poteva fidare perché c’era Berlusconi alla guida del paese. E allora il primo problema da risolvere era, è stato, far fuori Berlusconi. Quel che non è riuscito alla magistratura militante, all’opposizione parlamentare più o meno inferocita, ai traditori d’alto scranno e di bassa lega, alla guerriglia televisiva è riuscito agli spread. Ne prendiamo atto. Tristemente.

Certo, è probabile che chi ha pervicacemente cercato e alla fine ottenuto lo scalpo dell’agnello sacrificale non si accontenti, e deposto Berlusconi dalla guida del governo si adoperi per liquidare il berlusconismo e con esso quella modernizzazione del sistema politico faticosamente conseguita per la quale i governi li scelgono gli elettori e non i partiti o peggio le "élite illuminate". Non è escluso, insomma, che chi dentro e fuori i confini dell’Italia spinge oggi per un governo tecnico oltre ad avere in odio il Cavaliere abbia in puzza anche la sovranità del "popolo bue". Bisogna esserne consapevoli, ma anche realisti: se chi muove le leve della crisi ha stabilito che in questa fase in Italia non debbano essere i cittadini a decidere – e la reazione dei mercati alla nomina di Mario Monti senatore a vita lascerebbe intendere che sia proprio così – nulla esclude che una corsa a precipizio verso il voto anticipato venga accolta dagli speculatori a modo loro, e che questo basti a mandare il Paese a gambe per aria. Lo spread ha già sfondato quota 570, e non è uno scherzo. E’ un ricatto? Forse lo è, ma se l’ostaggio è il futuro del Paese forse per una volta vale la pena turarsi il naso. In caso contrario, potremmo trovarci ad aver coerentemente difeso la nostra vocazione bipolare ma ad aver consegnato l’Italia al dissesto. Un’opzione legittima e idealmente accattivante, ma decisamente connotata da scarso realismo.

Ma c’è di più. È l’Europa che ci ha chiesto, ma meglio sarebbe dire imposto, di fare ciò che – ecco i limiti di Berlusconi e del suo governo – il Cav. non è riuscito a fare in tutti questi anni di governo: la riforma delle pensioni, la riforma del mercato del lavoro, le liberalizzazioni e una politica di propulsione alla crescita e allo sviluppo in grado di rompere i vecchi e sclerotizzati equilibri corporativi, quelli che per decenni hanno messo d’accordo sindacati e grande industria, ai danni della vera risorsa economica del paese, di ridurre drasticamente il debito pubblico e di sollevare dalla pressione fiscale e dall’insopportabile peso dell’ingerenza pubblica la nostra economia. Chi farà queste riforme? Quale parlamento democraticamente eletto tra poco più di un mese da un popolo elettore al meglio atterrito dalla prospettiva di “fare la fine della Grecia” e al peggio disgustato dalla politica sarà sufficientemente forte e tempestivo per mettere in pratica quel che la Bce ci ha chiesto nero su bianco e in tutta fretta?

Sarà forse l’antipolitica del movimento a cinque stelle, la favola vendoliana dell’eguaglianza sociale, il pragmatismo a corrente alternata di Bersani, l’anti-macelleria sociale di Di Pietro. Sarà forse il presidente Fini a salvarci dal default o forse la Dc demodé di Casini? E soprattutto, può il Pdl, ed ecco la partigianeria che prende il sopravvento, uscito sonoramente sconfitto da un responso delle urne che si preannuncia feroce e dilaniante, salire sull’Aventino e chiedere a qualcun altro di fare ciò che vocazionalmente ed elettoralmente era stato chiamato a fare, cioè riformare questo paese? È davvero questa la fine che merita il berlusconismo e che merita – lo diciamo da berlusconiani nonostante tutto e tutti – Silvio Berlusconi? Non lo crediamo.

Certo, c’è chi dice che l’ipotesi del governo tecnico farà implodere il Pdl in un batter di ciglia, che il partito di maggioranza del centrodestra cederà ad una logica da rompete le righe che non farà altro che portar acqua e voti al mulino dell’Udc. Avremo tempo per ammettere di aver sbagliato, ma non vogliamo credere di aver puntato su un progetto politico che muore al primo spuntare di un’alba nuova. Non lo meritano gli elettori del centro destra e non lo merita neanche, per il ruolo storico e politico svolto in tutti questi anni, il presidente Berlusconi.

E allora si faccia pure un governo alternativo a quello legittimamente uscito dalle urne. Non lo si chiami “tecnico”, un governo voluto dai poteri forti antiberlusconiani, non può definirsi tale. Governi finalmente questo paese. Faccia ciò che desidera da oltre dieci anni senza mandato elettorale. Si metta all’opera per tirar fuori l’Italia dalla crisi economica, non certo politica, in cui è è stata precipitata, ma lo faccia nel modo migliore e per il bene del paese. Porti avanti – oltre ai propri interessi finanziari – quelle tre o quattro riforme che servono all’Italia per cambiare il “sistema Italia”. Riformi le pensioni, alleggerisca i vincoli che attanagliano le imprese, metta in atto un piano di liberalizzazioni a tutto campo, svincoli il mercato del lavoro dalle corde del garantismo sindacale, trovi le risorse per attuare un piano di ammortizzatori sociali efficienti a garantire la flessibilità lavorativa, si faccia carico di colmare e superare quel divario generazionale che nel nostro paese finora ha tutelato i vecchi e tenuto ai margini i giovani, abbatta i privilegi.

E il Pdl appoggi con convinzione le riforme giuste, quelle fatte nel nome dell’interesse nazionale, quelle che il suo elettorato ha sempre auspicato, perché stanno dalla parte del paese, e attenda di essere traghettato, dopo aver raccolto le forze e ridisegnato un progetto politico, fino alle prossime elezioni, tra sei mesi o un anno. Solo così si potrà sperare di poter riprendere il percorso iniziato e continuare a metter mano a quella rivoluzione liberale in cui noi tutti abbiamo sperato. E magari ci scapperà anche qualche piccola soddisfazione, nel vedere il Pd costretto ad avallare una politica che ha sempre osteggiato. Il risanamento dei conti e le riforme liberali sono una prerogativa del centrodestra: sarebbe un peccato dare l’impressione che sia il Pd a darci lezioni in materia e noi ad accodarci con la coda fra le gambe.

Altra questione è se il governo Monti, Saccomanni, Amato, Letta, Frattini… sarà in grado di fare tutto questo. Se non sarà più facile cedere alla tentazione di una patrimoniale ben fatta o dell’ennesima vessazione fiscale da imporre ai cittadini. Ma questa è un’altra domanda a cui solo il tempo può rispondere. Purtroppo.