Chi ha paura della Superlega?

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Chi ha paura della Superlega?

Chi ha paura della Superlega?

30 Aprile 2008

Al fischio
d’inizio della Terza Repubblica del pallone mancano massimo due anni e al
contempo le condizioni minime per una diversa disposizione delle formazioni in
campo: in primis Lega Calcio, secondariamente le nuove reti televisive, in
ultimo la vecchia Federazione. 2010, odissea nello spazio da assegnare al gioco
più amato dagli italiani, nel programma dei canali digitali e satellitari.

La
collettivizzazione dei diritti delle società, immaginata dall’ex ministro Giovanna
Melandri
– la rivoluzione non russa – non avrà più alcuna ragion
d’essere, in un regime di mercato libero opportunamente riveduto e corretto,
libero anzitutto di valorizzare marchi, prodotti e occasioni da gol. Ed è in
questo contesto che l’ultima battuta del presidente Berlusconi acquista
credibilità e va presa maledettamente sul serio (“Solo con le grandi lo stadio si riempie e l’audience è
altissima”).

Presto, è nell’interesse di tutti riorganizzare da subito
il calcio italiano, schierando le migliori squadre nelle migliori condizioni
possibili, s’intende anche economiche e commerciali, non solo fisiche,
atletiche e tecnico-tattiche.

La Superlega che
piace al Cavaliere ce l’ha con il provincialismo ladrone degli sprechi di
troppi e dei privilegi di pochi, tra i partiti con un posto a tavola in casa
dell’accomodante Antonio Matarrese, di suo già incline all’idea (“La Superlega?
È un’ipotesi percorribile”). I club più rappresentativi sono ormai arcistufi di
mantenere anche chi si potrebbe permettere solo un’onesta vita da mediano, e
invece gioca da furbo alle spalle delle punte in movimento, così generose,
spacciandosi per fuoriclasse di pari livello e quota d’ingaggio. Fuor di
metafora: la serie A vetrina internazionale del nostro pallone campione del
mondo deve essere per molti ma non per tutti, altro che le venti-società-venti
messe assieme come in un mucchio selvaggio, a discapito della qualità e della
convenienza generale. Una Superlega da dodici-sedici squadre, quella sì che sarebbe
un vero campionato di vertice, un signor spettacolo (popolare e televisivo)
ogni benedetta domenica, gran bell’affare per gli investitori e per chi vende
agli offerenti i diritti d’immagine e trasmissione.

Sicuro,
bisognerà riferirsi a un modello organizzativo preesistente. Meglio applicare
il modulo Nba o Champions League? Peggio una formula senza
uno-due retrocessioni-promozioni o senza play-off? Certo, andranno poi definiti
i dettagli dell’operazione, i criteri di ammissione al progetto e la
regolamentazione del settore marketing e comunicazione. Ma qui si tratta di
salvaguardare il reale patrimonio del pallone nazionale, o ancora di quel poco
che ne rimane. Perché concesso il rispetto dovuto a ciascuna rappresentanza di
tifosi – per carità di patria: anche la più sparuta – non è comunque
accettabile e sostenibile, concedere altro tempo supplementare
all’incontro-scontro tra forze ed esigenze troppo diverse, inconciliabili,
incomparabili.

Le piazze di Torino, Milano, Genova, Firenze, Roma, Napoli,
Bari, Cagliari, Palermo, torneranno a tifare e a commerciare attorno allo
stadio solo se richiamate da una novità, se invogliate da un evento, se
motivate da una scommessa per spirito d’intrapresa. E tranquilli: anche le
piccole, nel loro piccolo sopravviveranno (magari in una degna serie B a misura
di bilancio in pareggio). Ma allora, chi ha paura della Superlega?