Chi paga il prezzo dei privilegi delle Coop rosse in Italia?

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Chi paga il prezzo dei privilegi delle Coop rosse in Italia?

30 Settembre 2007

Vi proponiano la prefazione che Geminello Alvi ha scritto al libro di Bernardo Caprotti "Falce e Carrello" edito da Marsilio. (www.falcecarrello.com)

Per chi scriva come me per mestiere è almeno curioso quanto accade mentre inizio questa prefazione. Il farlo mi colma di orgoglio, e di senso del dovere. Strano sentire, che rende insignificante il resto, e mi fa scrivere con delicatezza di un libro che, alla prima lettura, m’era venuto addirittura quasi di sconsigliare. E invece adesso che ho appena finito di riorganizzarmelo nella mente, m’entusiasma. Perché questo libro di denuncia possiede una tutta sua geometria, nella quale ogni dettaglio si incastra con calma concretezza. Ed è già raro che scrivendo d’argomenti economici ci si riesca. Ma meno consueto è ancora avere il privilegio di vedere incarnate delle idee così concrete e franche in una vita vera. E questo è l’orgoglio: avere ancora davanti il viso tenace, di un tratto infantile e però pervaso di una furia del dettaglio meticolosa, di Bernardo Caprotti. E accorgermi che è l’esempio della sua vita che dà ai numeri, e persino alle furie di questo libro, una forza di verità toccante. Altro che i manuali universitari sulla concorrenza o le storie del boom, o gli sproloqui dei convertiti al liberismo. Qui c’è un libro di economia sul bene, e i troppi mali dell’Italia, ma esemplificati nella grande storia di una impresa e di una vita. Perché questo di Caprotti non è un libro di vile polemica politica, di quelle che ogni sera ci tocca di digerire solo aprendo la Tv, nello smentirsi reciproco, senza mai prova dei politicanti. È piuttosto uno splendido trattato di economia, il cui criterio di verità è il bilancio di una vita. Chi lo leggerà, se onesto, se ne sentirà contagiato e infine persuaso.

Ed eccolo trentaduenne Caprotti, mentre, inorgoglito cogli occhi resi ancora più appuntiti dalla precoce stempiatura, guarda una cassiera che fa bene il suo dovere e digita alla cassa. La foto è vecchia di cinquanta anni, e ritrae lì accanto anche il senatore Mario Crespi, in visita al primo supermarket di Milano, di cui pure lui era azionista. Ma a saltare fuori dal bianco e nero ancora adesso è quella certa posa diritta di Caprotti, complice e compiaciuta; così orgogliosa di come tutto funzioni. Molto potrebbe dirsi di come il modello americano di supermarket fu importato in Italia e del perché ebbe poi successo. Due anni fa è stato pure scritto un agile libro di storia che ne illustra con efficacia le vicende, e spiega quanto siano stati decisivi il via degli americani e i vantaggi d’essere il first mover in questo settore.

Tuttavia senza questo viso di Bernardo Caprotti, senza un tenace intento di verità, e quella sua furia del dettaglio che diventa orgoglio per gli altri, non si riuscirebbe, io temo, a capire. La integrazione verticale tra produzione e sistema di vendita, i prezzi competitivi, la standardizzazione: spiegano, certo. Ma senza l’imprenditore Caprotti non si può capire Esselunga; perché essa abbia le più alte vendite per metro quadrato dell’area dell’euro. Peraltro il nostro può dirsi l’ultimo grande nome del boom italiano che ancora amministri una grande impresa. Egli è ormai l’ultimo operoso della generazione d’imprenditori nati tutti nell’anteguerra, che cambiarono l’Italia. L’operosità frugale della Brianza, quanto di tranquillizzante sempre l’accompagna, la lealtà, le minuzie dell’impresa tessile di famiglia erano in lui. Perciò nella epica della grande distribuzione e del miracolo economico egli seppe innestare i migliori caratteri organizzativi, e morali del vecchio agire. Innesto non facile ma agevolato dall’esperimento subito concretissimo di quel giovane della classe 1925, che dal padre viene appunto inviato in America. In Texas prima, quindi meccanico di macchine per la filatura del cotone e telai nel Maine, quindi tra lo scintillio dei grattacieli di New York. E in questo viaggio d’istruzione c’è un’avventura non dissimile da quella di un Adriano Olivetti. La Brianza o il Canavese si rinnovano in America nel loro meglio. E infatti non solo vengono gli inebrianti successi delle industrie tessili tra il 1952 e il 1965.

Ma poco più che trentenne Caprotti si lancia pure entusiasta nei supermarket. Si legga qui il bel pezzo nel quale descrive il suo colloquio con la madre e l’annuncio che non sarebbe più tornato ad Albiate. Il fervore dei supermarket, della impresa americana lo contagiarono: «Il nuovo business era molto più dinamico, molto più coinvolgente, assai più del tessile, e ben più di quanto non avessi mai pensato». Ma il contagio non dipese soltanto dalle magie della grande distribuzione d’oltreoceano, dei prezzi bassi e della logistica. A rileggersi le sue ripide, sbrigative note su quegli anni ci si sorprende a scoprire l’altro motivo d’un fervore così potente: «Io penso che il secondo fu dato in quegli anni di straordinaria dedizione nei quali si consolidò un grande senso di appartenenza, di colleganza, di autentica amicizia». Vissuta sempre però colla minuzia della Brianza, sbrigativa ma attenta alle piccole cose, quindi compiaciuta di quanto dicevano in quegli anni due vecchietti, clienti di Esselunga: «Veniamo qui in tram dall’altra parte della città settimanalmente, con quanto risparmiamo possiamo andare al cinema una volta la settimana». In quel sorriso di Caprotti del 1957, c’è insomma ben altro che chiacchiere; c’è un’epica dell’impresa che ha cambiato nel meglio e davvero l’Italia. Ed è questo il motivo più serio che dovrebbe far riflettere i lettori, fargli almeno chiedere perché un uomo così s’è risolto a un simile libro di denuncia. Tra l’altro considerato il suo carattere, ne sono certo, egli assai più volentieri avrebbe avuto tutt’altro da fare.

Ma prima di scorrere le statistiche di Esselunga e il resto vale la pena forse di insistere sul suo carattere originale. Da soli i numeri delle più alte vendite per metro quadrato nella grande distribuzione alimentare potrebbero fuorviare il lettore. Le ottimalità di questa impresa non si spiegano solo con indici di produttività astratte, o della standardizzazione. Il genio di Caprotti e del suo management è arte d’attenzione delimitata. Esselunga è quella furia del dettaglio, per la quale si misurano i passi del personale di banco e dei consumatori e di essi si informano gli architetti. Da circa un anno si studia la formula nuova del ragù come nemmeno Fermi per la produzione della bomba atomica. E anche la concentrazione di Esselunga, come vedremo e che spiega questo libro di denuncia, è evoluta a virtù. L’attenzione pignola al dettaglio ha ottimizzato i bilanci; seppur costretti nel territorio. Altri, e gli esempi sono molteplici, nel nostro capitalismo avrebbero peraltro profittato di una cassa così concentrata per allargarsi.