Chi pagherebbe una tassa per introdurre l’eutanasia di stato?
09 Dicembre 2010
Un grandissimo cineasta italiano quale il compianto Mario Monicelli merita un ricordo affettuoso e una stima incommensurabile. Tuttavia non possiamo astenerci dal dare un giudizio circa la sua dipartita.
La dignità di un uomo si misura, certamente, soprattutto nel momento estremo e dal suo atteggiamento nell’affrontarlo. La scelta di Mario Monicelli è opinabile ma merita rispetto, in quanto rappresenta la volontà di un individuo di essere padrone del proprio destino e la libertà di disporre a pieno della propria vita, anche nella tragica scelta di porvi fine. Il pericolo intrinseco al dibattito circa il suicidio del maestro è rappresentato da quanti vorrebbero, a seguito del suo gesto mortale, rimarcare la necessità di legalizzare l’eutanasia per i malati terminali.
Ogni individuo dispone del proprio corpo e della propria vita e possiamo indifferentemente credere che questo diritto gli sia stato conferito dalla natura o da Dio, per cui nessun ordinamento giuridico positivo può prevaricare la libertà individuale di disporre del suicidio come atto, pur sempre criticabile, di rifiuto della vita. Al contempo però non possiamo pretendere che le istituzioni di un paese occidentale finanzino l’eutanasia attraverso il ricorso alla tassazione e l’erogazione di dosi letali nelle cliniche della rete pubblica.
Il motivo di questa presa di posizione non è affatto la mera fedeltà all’ideologia libertaria secondo cui qualsiasi prelievo fiscale risulterebbe coercitivo perché non tiene conto della volontà di ogni individuo che, ad esempio, non può scegliere se finanziare o meno un’iniziativa a cui è contrario e per la quale verrà utilizzato il proprio denaro. Spingendoci oltre possiamo notare la contraddizione in termini dell’istituzione di una sanità pubblica nata per garantire la vita di ogni cittadino che, secondo alcuni benpensanti, dovrebbe garantirne anche la morte qualora lo volessero. La sanità pubblica si prefigge l’obiettivo, anche’esso criticabile per via del prelievo fiscale e della cattiva gestione che la caratterizza, di massimizzare le condizioni sanitarie dei propri assistiti, nonché di massimizzarne le prospettive di vita.
Dimostrato che il sistema di assistenza sanitaria sia pro-vita, quale altra organizzazione di questo tipo vorrebbe utilizzare i fondi a propria disposizione per perseguire lo scopo in antitesi a quello per il quale opera, ovvero la morte? Quando i fautori dell’eutanasia di Stato, che non crediamo affatto desiderino la morte più della vita, fanno riferimento al sistema svizzero, dovrebbero tenere a mente che tali trattamenti di morte assistita vengono praticati in cliniche private il cui scopo è generare profitto erogando un servizio proprio come qualsiasi altra azienda. Questi luoghi di cura non pretendono di fare il bene comune più di quanto non pretendano di trarre guadagno dalla cura degli assistiti, a differenza di quanto invece si prefiggono per definizione le aziende della sanità statalizzata.
L’intento della critica a questo pensiero, che va sempre più diffondendosi in un certo tipo di cultura nichilista, non è quello di giustificare un qualsivoglia accanimento terapeutico, tanto meno la pretesa di impedire a un essere umano di decidere quando terminare il suo percorso terreno con un gesto che, anche se considerato in un’ottica cristiana, solo Dio e nessun’altra autorità temporale può giudicare. Piuttosto vogliamo opporci a una società che, oltre ad aver dimenticato l’importanza dei diritti non negoziabili, vorrebbe istituire per legge il diritto alla morte.