Chi pensa che il Pdl sia un’esperienza da cestinare sbaglia
07 Giugno 2012
Cosa manca al Popolo della Libertà per tornare ad essere un partito competitivo? Quando ho rigirato la domanda ad un importante esponente degli azzurri, mi sono sentito rispondere che avrebbe fatto prima ad elencarmi i punti di forza che il partito aveva. Non credo che sia andato molto lontano dalla realtà.
Come ha sottolineato Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera, è a dir poco sconcertante che, a fronte del disastro elettorale delle passate amministrative nessuno abbia alzato la testa ed abbia posto con forza il problema della credibilità e dell’adeguatezza della leadership. E’ vero, voci isolate e alquanto flebili si sono levate, qui e là, per porre questioni di merito, per fare qualche proposta, per chiedere una maggiore fermezza nei confronti del Governo Monti. Qualcuno ha persino osato mettere in discussione i tre coordinatori: quello che l’ha fatto con maggior forza è stato, forse, proprio uno dei tre coordinatori, rassegnando le dimissioni, poi respinte al mittente. Niente di tutto questo, tuttavia, mette alla luce quelli che sono i nervi scoperti di questa immensa creatura in decomposizione che è il Popolo della Libertà.
Andiamo con ordine ed esaminiamo le questioni. Anzitutto il contesto, il sistema partitico. E’ molto semplice, in una sorta di bipolarismo tendente al bipartitismo, o più propriamente in un multipartitismo moderato, per un movimento politico come il Pdl arrivare nelle prime posizioni. E’ come vantarsi di essere giunti secondi ad un incontro di pugilato. La situazione cambia moltissimo se, invece, la competizione avviene per più soggetti credibili. E non è soltanto una questione legata alla legge elettorale, ma alla percezione di “voto utile”. La storia recente ha dimostrato che il Porcellum in sé non limita affatto il numero dei partiti. Col Porcellum, infatti, hanno governato sia Prodi che Berlusconi, con maggioranze assai diverse. A fronte di un cambiamento di sensibilità politica e con l’aumentare della rabbia per l’inadeguatezza del ceto politico, gli italiani hanno cominciato a rendersi conto che erano possibili anche altre scelte, che non erano costretti a votare per il Pdl e il Pd. Intendiamoci, non sto dicendo che questo sia l’unico fattore che ha portato questi due partiti a coagulare percentuali assai significative di consenso, ma va ammesso che anche questo fattore ha pesato. Almeno fino alle passate elezioni amministrative.
Un altro elemento che rappresenta una debolezza per il Popolo della Libertà è una problematica tutta interna e riguarda la leadership. Questo soggetto, infatti, nasce fin dall’inizio come un partito carismatico. In questa tipologia di formazione politica non esistono né organismi intermedi, né sedi deliberanti. Tutto resta fumoso e la volontà del leader è quella che prevale. Nel contempo, anche i sistemi di selezione della classe dirigente non rispondono a logiche democratiche: il capo sceglie chi deve fare carriera e valorizza le persone che gravitano attorno alla sua cerchia di conoscenze. La fedeltà è un elemento che viene valorizzato assai più del merito. Il conflitto resta soffocato come la brace sotto la cenere e risponde alle logiche della corte. Questi elementi venivano posti in rilievo da Angelo Panebianco già nel 1982, ben prima della discesa in campo di Silvio Berlusconi. Ciò che si concludeva è che i leader carismatici o erano tanto lungimiranti da preparare un “dopo”, consentendo che il partito si strutturasse con nuovi dirigenti legittimati dal voto, una propria organizzazione interna, una burocrazia di partito e delle sedi deliberanti, o era destinato a sciogliersi. Intelligenti pauca.
Vi è poi un pericolo che risiede in un falso postulato, un preconcetto che ingessa via dell’Umiltà in questo desolante presente e nell’incapacità di riformarsi: è il terrore, instillato dall’epoca di tangentopoli, per il partito “pesante”, per le tessere e i signori delle suddette, per la corruzione e il voto di scambio che avrebbero partorito il debito pubblico. Signori miei, corruzione e debito pubblico sono galoppanti, i potentati esistono ancora, il voto di scambio si è trasferito armi e bagagli nelle Regioni, nei Comuni, nelle partecipate e le grandi signorie della pubblica amministrazione sono una fornace che inquina molto più dell’inceneritore di Acerra. Diciamo la verità. I partiti sono leggeri soltanto per non consentire la formazione di contropoteri che possano metterne in discussione le oligarchie interne, le quali stanno facendo risplendere Michels e Weber di un’abbagliante attualità. In questo scollamento tra base e rappresentanti si sprofonda nel paradosso delle primarie, mantra nel Pd e implorazione nel Pdl. Non credo che esistano altri posti al mondo in cui chiunque (anche cinesi irregolari che non parlano una parola d’italiano) possa votare per scegliere il candidato alla carica X. A chi si affretterà ad additarmi gli Stati Uniti, vorrei ricordare che quello è un sistema bipartitico e che, comunque, il voto richiede l’iscrizione nei registri del partito. La conseguenza, tutta italiana, del sistema delle primarie è che il candidato designato molte volte non è neppure espressione del movimento nelle cui liste raccoglie i voti, risultando, una volta eletto, enucleato dalla struttura.
L’ultimo elemento che vorrei mettere in evidenza è la completa assenza di un’identità culturale comune. Negli altri Paesi un partito è, in linea di massima, figlio di una tradizione ben identificabile. In Italia ci si è inventati delle parole che non significano nulla. Quella che mi diverte di più è “moderati”: che cosa sono i moderati? Non è dato sapere. Moderati ha lo stesso brio della parola “ragionevoli” e la medesima capacità descrittiva: tutti ci si riconoscono. Ecco che allora, la carta dei valori del Popolo della Libertà diventa quella del Partito Popolare Europeo, come se quest’ultima non fosse, a sua volta, un massimo comun denominatore di una serie di esperienze popolari diversissime tra loro. Ora possiamo ammetterlo sinceramente: le basi comuni ai gruppi che compongono il Pdl sono poche. D’altra parte, nel partito di Silvio Berlusconi esisteva un’ideologia di fondo: Silvio Berlusconi. Per il resto liberalismo, socialismo, cristianesimo democratico, destra liberale, destra sociale, gruppi libertari, populismo non si sono mai completamente amalgamati ed hanno sofferto di non poter rivendicare la propria storia.
Ciò detto, chi pensa che il Popolo della Libertà sia, per il sottoscritto, un’esperienza da cestinare, sbaglierebbe. E’ vero, non sembra godere di ottima salute e non credo che, tutto sommato, abbia troppe chances di arrivare integro alle prossime elezioni. C’è una strada che, tuttavia esso può imboccare per salvarsi e questa strada passa attraverso la sconfitta e la ricostruzione del partito dalle fondamenta. Se nel centrodestra è davvero solida la convinzione che il futuro dell’Italia possa essere realizzato soltanto per mezzo del bipolarismo, questo è il momento di essere consequenziali. Si accetti di essere il partito perdente. Ci si accinga ad avviarsi verso una lunga traversata nel deserto che conduca alla ristrutturazione del partito. Si dia vita a strutture intermedie elettive e ad una vera democrazia interna. Si riparta dai territori per selezionare la classe dirigente, risalendo dal basso verso l’altro, senza eccezioni. Non dobbiamo nascondercelo: un tale processo porterà a delle vittime, anche illustri, ma consentirà di salvare quest’esperienza e di costruire uno strumento per inventare il futuro. Perché le intelligenze nel centrodestra ci sono e non sono, molto spesso, per nulla “moderate”. Ed hanno bisogno di padri nobili: non come Urano che i figli li divorava, ma come Giove, che lasciò che dalla sua testa nascesse Atena.