Chi sono i nuovi speculatori dell’emergenza alimentare

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Chi sono i nuovi speculatori dell’emergenza alimentare

Chi sono i nuovi speculatori dell’emergenza alimentare

 

C’è un problema che in Italia è sentito poco o nulla ma che, nel resto del Mondo, sta riempiendo le colonne dei quotidiani più quotati. Dopo il global warming, è il turno della food crisis. Anche L’Occidentale, caso raro nel nostro paese, si è occupato della questione, ma questa volta l’obiettivo è quello di scavare un po’ più a fondo del solito. 

Osservando la nascita e l’evoluzione della crisi alimentare, non si può non riflettere anche su un particolare fenomeno accaduto nel mondo finanziario, da un paio d’anni a questa parte ed acuitosi con lo scoppio della bolla dei subprime. Le commodities, strumenti finanziari con cui si scambiano le più disparate merci (dalla pancetta di maiale al succo d’arancia, passando per riso e grano), hanno visto un’impennata negli investimenti.

La loro particolarità consta proprio nel bene trattato: sono beni di prima necessità che possono essere prodotti ovunque con standard di qualità simili e con ridotto valore aggiunto nelle fasi di produzione.

La loro domanda non subisce variazioni sostanziali nel tempo, sono tutti facilmente stoccabili e sono considerati standardizzati per le ragioni di cui sopra rispetto agli altri che si trattano sulle borse mercantili mondiali. Un esempio sono proprio i bushel di grano, gli stessi che hanno subito un rincaro incontrollato nello scorso autunno.

Questi derivati finanziari sono trattati prevalentemente in alcune borse mercantili, come il Nymex , il Chicago Board of Trade (Cbot), l’Intercontinental Exchange (Ice) od il mercato merci di Chicago (Cme). Ma non solo, dato che numerosi mercati paralleli, spesso non regolamentati, sono sorti negli ultimi anni a seguito dell’evoluzione della finanza dopo il 2000. Infatti, se nel 1997 le commodities agricole vantavano un giro d’affari di 10 milioni di dollari, dopo dieci hanno raggiunto i 142 milioni trattati. Questo anche perché gli investitori hanno cercato di trovare una via di fuga a quello che è diventato l’incubo delle cartolarizzazioni selvagge, scoppiato la scorsa estate. Perfino Warren Buffett, guru della finanza yankee, ha espresso le sue perplessità, con parole che pesano come macigni: «Intorno alle commodities si sta creando una bolla speculativa peggiore di quella dotcom (la crisi dei titoli tecnologici)». Ma anche Ban Ki Moon, segretario generale dell’Onu, non è da meno: «La food crisis costituisce una sfida mondiale senza precedenti che colpisce i più vulnerabili e privilegia gli speculatori».

Ma come mai le due cose sono correlate? La crescita della domanda di beni da parte dei paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina) ha contribuito allo sviluppo dei mercati su cui sono trattate le commodities, introducendone nuove aree di scambio over the counter e l’informatizzazione che ha permesso di operare 24/7, aumentando le linee di asimmetria informativa dovute al fuso orario. Se a questo uniamo il fatto che gli operatori bruciati coi subprime hanno dovuto necessariamente una valvola di sfogo per le perdite subite, possiamo iniziare ad avere un quadro più completo. Si, perchè come per i derivati più famosi del mondo, quello delle materie prime è uno dei settori in cui, proprio per la fisionomia dei mercati, la speculazione finanziaria è più presente. Ma è la domanda di risorse quella che ha stravolto ogni assetto mondiale. In un mondo sempre più vorace non ci sono stati scrupoli, dicono alcuni, ma è solo una scusa. Si pensi ad un kg di carne di maiale. Bene, servono circa 4 kg di cereali per produrlo. Esemplificativo, ma inevitabile per lo sviluppo delle aree meno agiate ed in costante crescita economica.

Si cerca il benessere ed il modello capitalista è il solo in grado di soddisfare questa richiesta assillante. Cina e India, ma non solo, stanno crescendo da una situazione di diffusa miseria per evolversi e mettersi in competizione con le maggiori potenze industrializzate mondiali. Analizzando questo fenomeno è indubbio che la voglia di progresso ha aumentato in modo incontrollato la domanda di risorse, sia energetiche sia alimentari, amplificando i vari defaults di cui, in Italia, siamo stati spettatori. Ma il progresso economico e tecnologico sono deleteri? Avere la possibilità di competere con nuovi attori, i quali possono accrescere il nostro know-how e lo spirito innovativo, è dannoso?

La visione liberista del mercato suggerirebbe che l’attuale crisi del mercato alimentare sia una possibilità da vagliare. Questa è la posizione del Commissario Europeo del Commercio, Peter Mandelson, ed è anche l’unica speranza che possa fronteggiare la situazione: se si ritiene che le risorse non siano finite e che i mercati globali possano aprire, tramite l’innovazione, nuove possibilità produttive, la tragedia che si sta svolgendo nei paesi più poveri rappresenta un passaggio drammatico, ma obbligato, in preparazione ad un nuovo, elastico, sviluppo.

I prezzi più alti delle materie prime alimentari stanno spingendo molti produttori ad aumentare gli investimenti nel mercato in crisi, per aumentare volumi merceologici e profitti. Non è assurdo prevedere che in un decennio il prezzo del cibo sarà inferiore a quello che era un anno fa, questo per il semplice gioco degli equilibri, dato che la situazione odierna è quella dello squilibrio più totale; tuttavia un simile processo richiede una grande maturità e sinergia in un settore che è incontrollato e dà grande spazio alle speculazioni peggiori. I soggetti internazionali restano troppo deboli per regolare un mercato mondiale fin troppo anarchico, con la Cina che detta regole del tutto autoreferenziali, e che sta creando sempre più uno sbilanciamento globale che trasforma gli antichi equilibri tra “paesi industrializzati” e “paesi in via di sviluppo” in qualcosa di nuovo.

Il tutto in uno scenario in cui le commodities sono uno strumento di moda, che viene complicato da mille fattori contingenti (climatici, di congiuntura politica, di programmazione per esempio di piani come quello per il biofuel, ecc…), ma che ricade sulle persone con meno possibilità di riscatto. Quindi deprimendo intere economie ma anche portando sul lastrico masse sempre più grandi di persone.

Il risultato è che la food crisis non si può osservare solamente da un punto di vista, data la molteplicità di fattori che l’hanno prodotta. I commodities, ad esempio, hanno contribuito a creare un gap economico elevato, e si sta correndo un rischio assai grande con questi prodotti, forse superiore a quello dei mutui subprime. Come per quelli, numerose furono le Cassandre che cercarono di avvisare il mondo e sappiamo tutti come finì.

Un’emergenza che non è soltanto finanziaria e politica, e neppure esclusivamente umanitaria: un problema di stabilità geopolitica che richiede una risposta corale e sinergica dalle istituzioni internazionali, Onu e Fao in primis. Che stiamo ancora aspettando di poter dire convincente.