Chi violenta le donne in Afghanistan la paga ma l’emancipazione è lontana

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Chi violenta le donne in Afghanistan la paga ma l’emancipazione è lontana

03 Dicembre 2008

Il 12 novembre scorso a Kandahar, in Afghanistan, sei ragazze sono state sfregiate senza pietà. Gli hanno versato acido sul viso per non farle andare a scuola. Il fondamentalismo talebano, approfittando della miseria degli afghani, persegue ancora le sue indecenti operazioni di controllo sociale. Sotto il regime degli “studenti islamici”, che ha afflitto il Paese dal 1996 al 2001, l’istruzione femminile era stata proibita e, ancora oggi, nonostante la costruzione di una democrazia sul modello occidentale, i Taliban continuano ad impedire con gesti di intimidazione qualsiasi emancipazione sociale, figuriamoci quella femminile.

La settimana scorsa i colpevoli dello sfregio sono stati arrestati, erano una decina e hanno confessato di essere stati “manovrati” dai Talebani nascosti in Pakistan. Secondo il viceministro degli interni afghano, Daud, ai dieci erano state promesse 100.000 rupie per punire le ragazze (circa 1.000 euro). Certo è gratificante sapere che i responsabili sono finiti in prigione in attesa di un processo, e che “giustizia sarà fatta”, ma ciò non toglie che le condizioni di vita delle donne afgane restano al limite dell’umanità.

Almeno ufficialmente, rispetto al medioevo talebano, un salto di qualità c’è stato. La nuova costituzione afghana del 2004, all’articolo 22, vieta ogni forma di discriminazione o privilegio, e recita che i cittadini dell’Afganistan, uomini o donne che siano, hanno uguali diritti e uguali doveri. In realtà il diritto familiare sul matrimonio è rimasto quello di stampo sharaitico e la donna è ancora lontana da una soddisfacente emancipazione. Una fortissima dipendenza economica dal mondo maschile, l’analfabetismo e la scarsa consapevolezza dei propri diritti impediscono alle donne di raggiungere l’eguaglianza.

Ma il problema non si chiama soltanto Taliban. Nel pashtunwali afgano (“la via dei pashtun”), il codice morale pashtun, la giustizia ha un valore riparatorio e vige ancora il “prezzo del sangue”, per cui, nel caso di alcuni reati, il colpevole è tenuto a offrire in matrimonio le donne della propria famiglia come riparazione di un torto alla parte lesa. La donna dunque viene ridotta a pura merce di scambio, diventando colpevole di reati che non ha mai commesso.

Come se non bastasse, in questi casi non viene versato il tradizionale “prezzo della sposa” (una transazione inversa rispetto alla dote) né tantomeno il donativo nuziale islamico. Spesso le ragazze date in sposa sono impuberi, vengono costrette a sposare uomini anziani e sono condannate a una vita fatta di abusi e maltrattamenti senza alcuna protezione. Anche se il matrimonio, come altre istituzioni, è stato regolamentato nel codice civile del 1977, ancora oggi il diritto consuetudinario prevale su quello statale.

Tranne in rari casi, l’immagine socialmente corrente della donna in Afghanistan è quella di una persona emotiva, influenzabile e inaffidabile, che deve essere protetta perfino da se stessa, incapace di decidere su questioni economiche e finanziarie. La dote matrimoniale poi, oltre ad essere versata all’uomo, viene decisa dalla famiglia dello sposo, con la conseguenza che molte famiglie si indebitano per sposare la figlia.

Sebbene per gli uomini ci sia l’obbligo di pagare “un donativo” alla ragazza presa in sposa, “l’insicurezza” delle donne afgane gli impedisce di reclamare i propri sacrosanti diritti. Se guardiamo al diritto ereditario, per esempio, nonostante sia regolamentato in modo preciso dalla shari’a, le donne vengono escluse sistematicamente dalla successione, specie se questa riguarda i patrimoni immobiliari. Quello che sta avvenendo in Afghanistan dal 2001 è proprio la ricostruzione in toto di un ordinamento statale su basi più democratiche. Il grande ostacolo a questo progetto è che 23 anni di guerre hanno completamente negato alle donne una qualsiasi forma di istruzione, come quella universitaria o anche più semplicemente di formazione professionale.

Ad oggi mancano giudici qualificati che vadano oltre la conoscenza della legge sharaitica; nel Paese domina ancora una forte corruzione e mancano avvocati che siano in grado di difendere le donne in eventuali controversie; c’è insomma una quasi totale assenza di infrastrutture giudiziarie che renda possibile l’applicazione della legge, specie nelle zone rurali e montuose. Molti villaggi nei mesi invernali restano completamente isolati e questo contribuisce ad accentuare il senso di appartenenza clanica e il naturale ricorso alle istituzioni tribali: “E’ impensabile attendere il disgelo per ottenere una giustizia meramente formale nelle corti statali”, come ha spiegato un giudice di Faysabad.

Gli Accordi di Bonn del 22 Dicembre 2001, successivi alla caduta dei Taliban, hanno regolamentato almeno in parte la vita sociale delle donne afghane,  ma l’emancipazione è ancora una conquista lontana, visto che il supporto delle Nazioni Unite nell’opera di ricostruzione del parlamento si è limitata a un’azione di coordinamento incentrata sull’agenzia UNAMA (United Nation Mission for Afghanistan). E resta il fatto che uno degli elementi contenuti negli Accordi di Bonn è la rivendicazione per il popolo afgano di “determinare in libertà il proprio futuro politico in accordo con i principi dell’Islam”.

Anche l’Italia ha svolto un ruolo in queste complicate questioni giuridiche. Se gli accordi di Bonn proclamavano la necessità di ricostruire l’ordinamento afgano tenendo in considerazione i principi dell’islam, la tradizione giuridica afgana nonché  gli standard internazionali, al nostro Paese è stata assegnato il ruolo di Paese-guida nel coordinamento del settore giudiziario con l’Italian Justice Project.

L’articolo 6 del Capo III prevedeva la creazione di una commissione indipendente per i diritti umani con il compito di denunciare violazioni e abusi, nonché il sostegno allo sviluppo di istituzioni  locali per la difesa dei diritti umani. L’impostazione apparentemente equilibrata degli accordi di Bonn, però, nasconde una forte attrazione verso l’islamizzazione dell’ordinamento giuridico e il riconoscimento implicito della prevalenza dell’Islam sulle altre componenti della società afghana. Il fatto che l’ONU avesse solo un compito di mera assistenza, piuttosto che di gestione diretta sul territorio, ha consentito il riemergere successivo dell’anima islamica della tradizione afgana tanto da lasciar intravedere una sorta di ritorno alla siyasa shari’yya.

Questo atteggiamento da Giano bifronte del governo afgano serve a rassicura i Paesi della Coalizione impegnati in Afghanistan nella edificazione di uno Stato di Diritto e, contemporaneamente, strizza l’occhio alle masse popolari indicando la via islamica per il proseguimento del medesimo obbiettivo. Ma allora cosa è cambiato con la caduta del regime talebano? La risposta sta nelle parole di Shamsia, una delle ragazze che è stata sfigurata dall’acido: “Voglio continuare a studiare per aiutare la ricostruzione del mio paese”. C’è una crescente, anche se timida, consapevolezza dei propri diritti, c’è una nuova considerazione del proprio Paese, e Shamsia si sente responsabile dello sviluppo dell’Afghanistan esattamente come potrebbe esserlo suo fratello, suo padre o suo cugino. Il fatto che questi pensieri coraggiosi escano dalla voce di una diciassettenne riempie il cuore di speranza.