Chiude il Salone Margherita, l'”inno anticonformista” di Pingitore

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Chiude il Salone Margherita, l'”inno anticonformista” di Pingitore

Chiude il Salone Margherita, l'”inno anticonformista” di Pingitore

07 Ottobre 2020

Nel giorno in cui viene annunciata la chiusura del Salone Margherita, e con esso la fine di un pezzo di storia d’Italia, riproponiamo l’intervista che il suo fondatore, Pier Francesco Pingitore, ha rilasciato qualche mese fa all’Occidentale.

“Noi abbiamo passato quasi 50 anni sotto i comunisti mentre voi avevate la libertà. Però voi italiani avete scritto la canzone più bella sulla rivoluzione del 1956”. Così parlò Viktor Orbán e a Pier Francesco Pingitore, papà di “Ragazzi di Buda”, saranno fischiate le orecchie. Oggi che la libertà di tutti è minacciata da un nemico subdolo e invisibile, e Orbán per i comunisti è diventato il nuovo “uomo nero”, ne parliamo proprio con il noto regista, drammaturgo e autore televisivo, consacrato al grande pubblico dall’invenzione del “Bagaglino” ma in realtà creatore poliedrico e intellettuale fra i pochi non sottomessi alla vera dittatura del nostro tempo. Quella del politicamente corretto.

“Avanti ragazzi di Buda, avanti ragazzi di Pest, studenti braccianti operai, il sole non sorge più ad Est…”. Maestro Pingitore, come è nata questa bella canzone?

“Scrissi questo testo nell’ottobre del 1966. Era il decimo anniversario della rivolta d’Ungheria e in Italia la ricorrenza era celebrata assai poco perché in fondo non faceva comodo a nessuno. Il mondo era diviso in due blocchi contrapposti ma da noi evitavano di pungersi troppo, e quel tragico decennale rischiava di passare quasi sotto silenzio. Da qui nacque l’ispirazione. Composi il brano rapidamente, il nostro musicista di allora Dimitri Grivanovski la musicò, Pino Caruso la cantò”.

Erano i primi anni del Bagaglino…

“Esatto. Avevamo fondato il Bagaglino nel 1965 con alcuni amici giornalisti, iniziando da piccoli spettacoli e dalla scoperta di personaggi che si sarebbero rivelati poi figure importanti: da Oreste Lionello, a Caruso, a Gabriella Ferri… Al nostro secondo anno di attività cadde questo importante anniversario. Caruso cantò ‘Ragazzi di Buda’ praticamente per tutta la stagione, incontrando grande favore da parte del pubblico che all’epoca consisteva in 100-150 persone a sera, stipate in uno scantinato. Da lì poi il brano si diffuse all’esterno, nelle università e man mano in altri luoghi ma io ne persi un po’ le tracce. Finché due o tre anni fa fui contattato dall’Ungheria, intendevano stabilire un rapporto con me e avevano in mente anche di invitarmi a Budapest. Ma finora, purtroppo, non ho potuto accettare l’invito”.

Il fatto che il brano negli anni sia diventato un inno identitario per tante generazioni di ragazzi, soprattutto di destra, autonomizzandosi in qualche modo dalla stessa figura del suo autore, le dispiace o è un motivo di orgoglio?

“E’ sempre un motivo di orgoglio fino a quando le parole vengono rispettate. E’ stato così fino a un certo punto, poi sono intervenuti alcuni cambiamenti. Io però gradirei che ‘Ragazzi di Buda’ venisse cantata esattamente come è stata scritta all’inizio. In ogni caso, è chiaro che mi fa piacere che qualcuno ancora la esegua. So che qualche anno fa la canzone è stata intonata in ungherese e in italiano in tutte le scuole elementari e medie di Budapest. Ho visto il video e mi ha molto emozionato”.

Maestro, nel 1966 lei dedicò il testo alla resistenza dei giovani di Budapest contro il totalitarismo sovietico. Pensa che oggi ci sia bisogno di una nuova “Ragazzi di Buda” per difendere gli ungheresi dal pericoloso dittatore Orbán?

“No, non lo credo per niente. Oggi si tende a politicizzare sempre tutto e a perdere di obiettività. In realtà ciò che questo terribile dittatore ha fatto è applicare quello che la Costituzione ungherese prevede per adottare determinate misure nelle situazioni di emergenza. Misure che finora non si discostano granché da quelle adottate da Conte, a Camere in semi-quarantena, mentre Orbán ha avuto comunque una maggioranza di oltre i due terzi da parte del Parlamento ungherese. Non voglio dire con ciò che Conte stia facendo un golpe, per carità. Ma ci sono momenti difficili nei quali ogni Paese ha necessità di assumere provvedimenti eccezionali e straordinari. Non si capisce perché le stesse misure applicate da noi, o in America, o in Francia vanno bene, mentre se adottate in Ungheria diventano il prodotto di una terribile dittatura. Il problema è che ci si confronta sempre su visioni parziali che ciascuno matura in base al filtro dei propri pregiudizi e anche dei propri interessi. E invece non è il momento di bandire crociate. L’unica crociata vera dev’essere quella contro il coronavirus. Il resto sono tutte chiacchiere”.

Tempo fa lei disse di essersi schierato a destra “perché a sinistra non c’erano più posti”, espressione che ben rappresenta il conformismo di tanto mondo della cultura e dello spettacolo. La considera ancora attuale? E ritiene che il conformismo sia oggi un pericolo anche a destra?

“Il conformismo è sempre un pericolo, che abbia connotazioni di destra o di sinistra. Solo che il conformismo di sinistra ha governato culturalmente l’Italia per settant’anni, mentre un analogo pericolo a destra non mi sembra di intravederlo. Il conformismo di sinistra è invece un guaio persistente. E’ il politicamente corretto che uccide qualunque libertà, è il pregiudizio per cui in una discussione la cosa più importante è essere il primo a dare del fascista all’altro. Si dà a certe parole il valore di una pistolettata, chi la spara per primo ha vinto”.

Da uomo di cultura e di spettacolo che negli anni ha saputo far ridere e riflettere milioni di italiani, come sta vivendo questo periodo di quarantena? Ne usciremo cambiati? E se sì, in meglio o in peggio?

“Sento tanti dire che cambierà tutto, che saremo diversi… Io sinceramente non lo so. Credo che dovremo rimboccarci molto le maniche e darci da fare, come forse non abbiamo fatto negli ultimi anni. Sempre a patto di sopravvivere, potremmo anche ricavare qualche beneficio da questa lunga penitenza. Ma previsioni su come saremo non ne azzardo. Nel dopoguerra, che è l’esperienza più prossima alla quale possiamo rifarci, ci si trovò in un mondo totalmente cambiato: era mutato il regime, il modo di vedere le cose, c’erano le città bombardate e una grande voglia di ricominciare. Oggi invece c’è un bombardamento ideale al quale dovremmo cercare di porre riparo, ma è difficile dire come, perché non sappiamo ancora l’entità delle rovine che ci troveremo di fronte. C’è una struttura economica, industriale e produttiva che potrebbe uscirne a pezzi se la situazione di stallo durerà ancora a lungo, ma può anche darsi che tutto finirà prima di quanto immaginiamo. La verità è che brancoliamo nel buio, il buio ci fa paura e quando si ha paura non si possono mai fare previsioni attendibili”.

Questa prova è dura per tutta l’Italia, ma per alcuni territori già colpiti lo è ancora di più. Pensiamo ad esempio alle zone terremotate. Lei in qualche modo è legato all’Aquila, dove è ambientato il suo spettacolo teatrale dedicato alla liberazione di Benito Mussolini dalla prigionia di Campo Imperatore, e dove è tornato di recente per partecipare alla Festa della Montagna, una bella iniziativa promossa dall’amministrazione comunale. Cosa vorrebbe dire in questo momento agli aquilani?

“Che hanno tutta la mia solidarietà. L’Aquila è una città splendida, tutto l’Abruzzo è splendido e vi sono persone generose e accoglienti. Non dimenticherò mai il sostegno e il calore degli abruzzesi durante i miei spettacoli su Mussolini a Campo Imperatore, dove sono venute anche persone di tutt’altre idee che hanno apprezzato l’obiettività con la quale ho trattato quei temi. Ho incontrato un popolo che mi piacerebbe in qualche modo aiutare, non so come ma mi piacerebbe. Intanto auguro loro che questo incubo abbia fine per non dover vivere nuove sciagure dopo quelle che hanno già dovuto sopportare e che hanno affrontato con tanto orgoglio e con grande dignità”.