Chiunque vinca tra Obama e Romney dovrà pensare ai problemi di casa, non all’Impero globale

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Chiunque vinca tra Obama e Romney dovrà pensare ai problemi di casa, non all’Impero globale

Chiunque vinca tra Obama e Romney dovrà pensare ai problemi di casa, non all’Impero globale

28 Ottobre 2012

Il dibattito di Boca Rota di lunedì 22 ottobre tra Obama e Romney non è stato né analizzato né commentato a fondo da nessuno dei nostri giornali: soprattutto non ne è stata compresa l’importanza. Ci si è limitati a chiedersi chi aveva vinto, ha appassionato la battuta su baionette e cavalli, ma non si è capito quale svolta abbia rappresentato. La parola “pace” è stata pronunciata dodici volte ed è sempre stata pronunciata da Romney.

Obama ha detto che era giunto il momento di fare un po’ di nation building negli Stati Uniti e Romney ha confermato “non vogliamo un altro Iraq, non vogliamo un altro Afghanistan”. Di fronte agli americani, anche del GOP, ormai stanchi, delle infinite guerre americane sempre perdute, è cambiata la retorica ascoltata da Bill Clinton a George W. Bush, quando c’era sempre qualche minaccia incombente sul mondo e solo gli Stati Uniti potevano salvare il pianeta con una guerra. Romney ha fatto di tutto per rassicurare gli elettori di non essere Bush jr.  Più sicuro di sé e più intelligente di Bush jr, ha eliminato qualsiasi riferimento teologico-medievale alla guerra: non ha mai pronunciato la parola Evil. Parole come “impero del male” o “asse del male” non fanno parte del vocabolario di Mitt. Ha invece introdotto il termine “nemico geopolitico”.

La Russia è il nemico geopolitico numero uno degli States, non il Male. Dietro a Romney c’è la tradizione del realismo politico della destra americana, da Morgenthau, a Kissinger, a Mearsheimer. Non un gruppo di ex-trotskisti convinti che si faccia la guerra per motivi religiosi e che la mission degli States sia l’impero globale (Empire, l’ha scritto Tony Negri, un vecchio marxista), ma il realismo politico americano, che riprende la grande tradizione europea di Machiavelli, Hobbes e Schmitt, per i quali le guerre si fanno per interesse e aumentare la potenza, non per eliminare il male dal mondo. Romney può sembrare deludente a chi ha bisogno di un Messia, ma può apparire più rassicurante di Obama, che non ha chiuso Guantanamo e con i droni ha ucciso centinaia di civili in Pakistan, mettendo in crisi i rapporti tra States e Pakistan e sollevando un’ondata di odio contro l’America. Obama e Romney sono apparsi soporiferi ai nostri giornalisti, perché hanno parlato di politica estera da realisti.

Entrambi si sono dichiarati favorevoli alla guerra preventiva, esistente da quando Roma decise di distruggere Cartagine, e all’uso dei droni, legittimando una pratica che l’amministrazione Obama non riconosce pubblicamente e la cui efficacia è discutibile per vincere una guerra. Entrambi hanno dichiarato di rispettare il nuovo Egitto di Morsi, per mantenere aperto un canale con l’Egitto, che può trovare aiuti economici dalla Cina, come si è visto dopo la prima visita a Beijing del nuovo presidente egiziano. Chi accusa Obama di essere il nuovo Carter, ignora che la fine dello Scià Reza Pahlavi era inevitabile e non solo per la modernizzazione frenetica imposta all’Iran, ma per gli interessi nazionali che gli iraniani consideravano traditi dallo Scià, accusandolo di avere messo il paese in mano alle multinazionali occidentali.

Non va dimenticato che l’Iran aveva avuto Mossadeq, eletto democraticamente, che si oppose alla concessione all’attuale British Petroleum Oil dei giacimenti petroliferi e nazionalizzò il petrolio. Lo Scià riuscì a tornare, grazie a un golpe della Cia e dei servizi segreti inglesi, ma iniziò una modernizzazione selvaggia del paese, che suscitò una grande opposizione, a cui reagì con repressioni durissime. I giovani studenti iraniani in Europa parteciparono ai  movimenti studenteschi negli anni ’70 e volevano la rivoluzione contro lo Scià. Nello stesso tempo, anche i leader marxisti iraniani, che dall’Italia andavano e venivano da Parigi, dove era stato esiliato Khomeini, sapevano di non potere fare a meno della sua autorità. Se si sapeva a Firenze che lo Scià era spacciato ( un architetto iraniano annunciò durante una cena che tra sei mesi lo Scià sarebbe stato cacciato e così fu) lo avrà saputo anche Carter. Non è nemmeno da escludere che l’occupazione dell’ambasciata americana a Teheran e il sequestro degli ostaggi, non sia stato motivato dal timore di un’azione della Cia simile a quella che eliminò Mossadeq. 

L’Egitto si è ribellato a Mubarak, perché gli Stati Uniti hanno perso in Iraq e Afghanistan, da cui non sanno letteralmente come uscire. La “rivoluzione” di piazza Tahrir era democratica, ma non filoamericana, era filoegiziana. Era contro Mubarak, perché il presidente egiziano era diventato per realismo politico alleato degli americani: non poteva fare diversamente dopo le sconfitte di Nasser, che nazionalizzò il canale di Suez. Obama ha chiesto a Mubarak di andare via, perché voleva mantenere buoni rapporti col Cairo. Da come la politica e l’esercito egiziano hanno gestito il post-Mubarak si capisce che il presidente Morsi, dei Fratelli musulmani, ha studiato e vissuto negli States, ma difende l’identità e gli interessi egiziani. Quando il moderatore Bob Schieffer  ha chiesto a Obama se non si era pentito di avere chiesto a Mubarak di andare via, Obama ha risposto a denti stretti di essere comunque contento quando in un paese si afferma la democrazia.

Quando ha chiesto a Romney se si sarebbe comportato come Obama con Mubarak, Romney ha annuito. Non sprizzavano affatto di felicità, ma dopo due guerre perse in Medio Oriente, gli americani sono diventati realisti. Non c’è stato l’appello contro la minaccia islamica, e, per fortuna, non è stato tirato in ballo Israele, strumentalizzato per legittimare qualsiasi intervento contro un paese arabo, come si fece con l’Iraq di Saddam Hussein, accusato di minacciare Israele con armi di distruzione di massa. Su Medio Oriente e Libia si è percepito imbarazzo da entrambe le parti. E’ fallito il progetto del Greater Middle East e non è ancora stata chiarita la morte la morte dell’ambasciatore Stevens: non si è ancora capito come sia stato possibile l’attacco alla casa dove si era rifugiato, mentre i droni sorvolavano il cielo di Bengasi e la Cia, secondo  alcuni fonti,  era vicina.

La Libia è un’altra guerra che non è stata un successo per gli Stati Uniti ed è stata approvata da democratici e repubblicani. Per questo, nel dibattito non si è sentito il rullare dei tamburi di guerra. Gli Stati Uniti sono un paese stanco, con tanti disoccupati, infrastrutture trascurate, middle class proletarizzata. L’unico momento in cui il dibattito si è acceso è stato quando si è andati fuori tema e si è cominciato a parlare di tagli fiscali. A Romney interessa soprattutto parlare di economia e spiegare quanti nuovi posti di lavoro si potrebbe creare  e questo interessa gli americani più della politica estera. Si è definita la Russia il principale nemico geopolitico degli Stati Uniti, ma non si è mai nominato l’Europa, come si faceva ai tempi dell’Urss, perché l’Ue dovrà decidere da sola cosa fare con la Russia, dei cui gasdotti Germania e Inghilterra sono i principali partner. Insomma, chiunque vinca, l’America ha voglia di pensare a risolvere i problemi a casa, non all’impero globale.