Chiuso il congresso Pdl si apre una fase nuova e non del tutto prevista
29 Marzo 2009
Al di là dei riti e dei canoni tipici e sperimentati del berlusconismo, nei tre giorni del congresso fondativo del Pdl si è consumato qualcosa destinato a lasciare una traccia significativa nella politica italiana. E da non sottovalutare. Una fase si è chiusa, quella ampiamente raccontata e rievocata da Berlusconi nei suoi due discorsi dal palco e una nuova si è aperta, ancora da raccontare e da comprendere.
Non so se si sia trattato di un congresso prevedibile, come molti hanno detto anche a caldo nei corridoi della fiera e nella sala stampa. Di certo non mi è sembrato un congresso “previsto”. Da settimane e mesi sui giornali l’appuntamento romano era raccontato secondo lo schema “Forza Italia divora An”, con tutte le varianti sull’umiliazione di aenne, il cilicio delle quote, il mesto spegnersi di un partito costretto a traslocare in casa d’altri.
Il primo congresso del Pdl, letto a poche ore dal suo termine è stato molte cose ma non certamente questa. Questo dualismo si è frantumato rapidamente, lasciando spazio ad una serie di fratture e ricomposizioni, per ora solo in parte visibili, che rappresenteranno a lungo il metabolismo del nuovo partito e anche la sua forza vitale. L’impressione è che la reazione abbia funzionato e che i componenti abbiano dato vita ad un composto ancora instabile ma certamente con caratteristiche proprie e tutte da studiare.
Anche il dualismo Fini – Berlusconi ha avuto una ricomposizione non del tutto prevista. Qualche osservatore aveva notato nei giorni scorsi come si stesse profilando una contrapposizione tra un “partito del Parlamento” capitanato dal presidente della Camera e uno del governo, guidato dal presidente del Consiglio. Ma non è quello che si è visto alla Fiera di Roma. Piuttosto, se di contrapposizione si deve parlare, è quella tra Gianfranco Fini che ha fatto un discorso da capo del partito e Silvio Berlusconi che ha parlato da capo del Governo. Più efficace il primo che è premiato dalle occasioni solenni e dai discorsi alati, svantaggiato il secondo che preferisce blitz oratori più estemporanei e meno paludati.
Ma la sostanza resta: Fini ha riempito il campo della politica che si è aperto con la nascita del nuovo partito. Berlusconi ha lasciato quel campo libero, preferendo da un lato fissare il suo lascito nella storia italiana degli ultimi 15 anni, la sua legacy, dall’altro dare voce ai fatti, ai numeri, alle evidenze e agli impegni del governare.
Si tratta di una contrapposizione diversa da quella prevista, se volete più profonda e più vera, ma interna alla stessa dinamica e perciò meno lacerante. Il punto posto da Fini, al di là dei singoli contenuti, riguarda esattamente il ruolo del partito, il posto che esso deve riempire nella dialettica prevalente che è quella maggioranza-governo. Per Fini, è sembrato di capire, il partito non può essere solo una macchina elettorale al servizio del leader, che si attiva al massimo al momento del voto e poi si limita a girare in surplace in una sorta di manutenzione del consenso. Al contrario il partito è il luogo permanente dell’elaborazione delle idee e delle “policy” che deve alimentare e anche condizionare l’azione di governo.
Berlusconi coltiva una naturale insofferenza per l’idea stessa di partito. Ha sempre rifiutato quel nome, preferendo quelli di “casa”, “popolo” o la semplice incitazione “forza italia!”. La concrezione della politica in regole, cariche, statuti, dipartimenti, segreterie, votazioni, mozioni, è quanto di meno congeniale ci possa essere per il Cav. La sua continua fascinazione per i “circoli” di questo o di quello ne è la dimostrazione e insieme il metodo prescelto per mantenere le sue formazioni politiche sempre in uno stato fluido e “non garantito”.
Berlusconi, come Veltroni, potrebbe dire di essere “uomo delle istituzioni” molto più che dei partiti. L’idea che ha maturato è che la politica coincida essenzialmente con l’azione di governo: lì si compiono le scelte che contano, da lì si imprime il marchio di fabbrica all’evoluzione politica, sociale, culturale, economica del paese. “Stringetevi attorno al governo”, ha esortato gli italiani dal palco della Fiera, non attorno al partito che stava nascendo. Come nel mondo anglosassone i fari sono tutti puntati sull’amministrazione, il partito entra in scena solo per la volata elettorale. Ma il problema è che in Italia i poteri del governo e in particolare quelli del capo del governo “sono finti”. Berlusconi lo ha ripetuto più volte nel suo discorso di domenica. Per questo il Cav. sente il bisogno di “costituzionalizzare” lo schema della centralità del governo con riforme che vanno dai regolamenti parlamentari fino alla ripresa della “grande riforma” del 2005 poi bocciata dal referendum.
A ben vedere però, questo quadro non comporta necessariamente una contrapposizione tra il presidente della Camera e quello del governo, anche se oggi questo tratto sembra prevalente. A modo suo Berlusconi pensa al dopo. E oggi dal palco per la prima volta ha mostrato di avere questo in testa quando ha detto : “Questo partito sopravviverà ai suoi fondatori”. Una volta finita l’epoca del carisma berlusconiano,per continuare a vincere e a portare compimento le molte “missioni” che ha tracciato per la sua creatura politica, occorre che quel carisma sia in qualche modo costituzionalizzato, codificato nel dna politico del paese. Non è il modo per rendersi eterno, semmai è il modo per lasciarlo in eredità.
Fini lo ha capito e si prepara per quando arriverà il momento.