Christa Wanninger, uccisa a 23 anni, svelò il lato oscuro della Dolce Vita
10 Agosto 2010
Morire a 23 anni nel quartiere scintillante della Dolce Vita. Forse è in questa feroce contraddizione che può spiegarsi il senso di uno dei delitti più "longevi" della cronaca romana, il caso Christa Wanninger, dilaniata il 2 maggio 1963 da sette coltellate sul pianerottolo di un palazzo alle spalle di via Veneto.
Un omicidio che ha assunto i tratti del romanzo d’appendice, il cui ultimo capitolo è stato scritto 22 anni dopo, quando ormai il "bel mondo" celebrato da Fellini e dall’epopea dei paparazzi a caccia di divi era solo una trappola per giapponesi e americani, un set fantasma inserito nei giri turistici di routine.
Christa, la bella tedesca bionda e con gli occhi azzurri che sognava un avvenire da star e le prime pagine dei giornali fu accontentata, ma da morta. Incrociò il suo assassino nel primissimo pomeriggio di una domenica, al quarto piano di un palazzo in via Emilia 81, a due passi da via Veneto. Era uscita dall’ascensore e stava per bussare alla porta della sua amica Gelda, tedesca come lei, anche lei giovane, avvenente e desiderosa di inserirsi tra la bella gente. Forse aveva già suonato il campanello quando fu raggiunta alle spalle dall’uomo che la uccise, forse addirittura conosceva chi le sferrò sette coltellate con una furia bestiale: il medico legale constatò che la poveretta mori con il cuore dilaniato, così come il fegato; un bicipite era stato reciso fino all’osso e una mano quasi staccata.
La "bella tedesca", come la chiamarono i cronisti, ebbe il tempo di strillare, facendo accorrere le persone presenti nel palazzo al quarto piano. Impossibile prendere l’ascensore, la vittima era distesa tra la cabina e il pianerottolo. I primi soccorritori incrociarono un uomo alto e magro, con un elegante abito blu, il quale mentre scendeva le scale a piedi disse con noncuranza: "Oh sì, c’è una ragazza che strilla", per poi uscire indisturbato.
Il delitto si consumò in un lasso di tempo di cinque minuti, cioè da quando la portinaia dello stabile vide entrare Christa, alle prime strazianti, grida.
La custode non incontrò l’uomo in blu per un soffio perché entrò a consegnare della carte in un appartamento al terzo piano. A pochi minuti dal delitto il palazzo si riempì di curiosi, qualche cronista arrivò prima della polizia e dell’ambulanza, rubando con gli occhi gli ultimi respiri di Christa. Accorsero anche gli investigatori, e si attaccarono al campanello dove probabilmente suonò anche Christa. La sua amica Gelda doveva essere in casa, la portinaia non l’aveva vista uscire. Qualcuno ipotizzò: "Vuoi vedere che hanno ammazzato anche lei?". Finalmente la porta fu aperta da un’assonnata ragazza, proprio lei, l’amica della vittima. Stupita di tutto quel trambusto, fu informata dei fatti. Ebbe una "reazione quasi infastidita, per nulla scossa, come fosse incappata in un contrattempo", raccontò un sospettoso cronista.
All’epoca non era raro che le varie fasi di un’indagine potessero essere seguite in diretta: occhi e orecchie dei giornalisti raccoglievano notizie di primissima mano, ricche di impressioni, di dettagli vividi. Se Gelda avesse aperto la porta a Christa avrebbe potuto salvarle la vita, il suo comportamento apparve quanto mai sospetto. "Sono andata a dormire alle quattro di mattina, evidentemente ero nel sonno più profondo. E’ forse un reato?" Si difese Gelda. "Andate a chiedere al suo fidanzato, Alessio. Magari sa qualcosa su chi possa essere l’assassino. E poi so che litigano spesso…".
Detto fatto, uno stuolo di cronisti si presentò sotto casa del ragazzo, in via Panama 110, prima ancora della squadra mobile. Lui, rappresentante di commercio, ex calciatore e attore mancato, rincasò trovando davanti al portone i giornalisti, che lo informarono dei fatti. La notizia lo sconvolse, i "neristi" lo assolsero seduta stante. Raccontò di essere rimasto la sera prima con Christa fino alle 4:30, poi di averla accompagnata a casa sua, in via Sicilia 81. Fornì anche un robusto alibi, alla stampa prima che agli investigatori, puntualmente verificato da entrambi. Passò la mattina del delitto dal barbiere, poi a pranzo con una mezza dozzina di amici. L’assassino non poteva essere lui. Fornì molti altri dettagli sulla vita della defunta. Originaria di Monaco, si era innamorata dell’Italia da giovanissima, e nel ’61 si era trasferita a Roma dove si era fidanzata con Alessio. "E’ vero avevamo litigato e io l’avevo anche lasciata. Quando ero in viaggio mi tradiva. Ma le volevo bene, avevamo intenzione di sposarci".
Christa, la "tedeschina" (un articolo che andava assai di moda nell’Italia del boom, un oggetto da esposizione per il quale i vari "cummenda" erano disposti a far pazzie), rappresentò da allora il lato oscuro di quella Dolce Vita che riempiva le copertine dei rotocalchi e dei cinegiornali.
Via Veneto e le strade dei night, del Cafè de Paris, erano una grande vetrina, un acquario dove ammirare i ricchi e i famosi e dove mettersi in mostra, scatenando gare di emulazione in quanti speravano di uscire dall’anonimato, come ha sottolineato Enzo Rava nel suo bel libro "Roma in cronaca nera". Aichè Nanà improvvisò uno spoglarello al Rugasntino? Il giorno dopo plotoni di sconosciute non perdevano occasione per denudarsi nei night di Via Veneto. Ava Gardner e Walter Chiari furono immortalati mentre litigavano mollandosi dei ceffoni? Ecco che decine di coppie presero a schiaffeggiarsi in pubblico. Via Veneto era, appunto, una vetrina e quasi tutti erano delle comparse che non avevano certo il phisique du role dei belli e dannati. E Christa, malgrado la sua morte violenta, non sfuggiva a questa regola.
E’ vero, era una ragazza leggera, si accompagnò a qualche industriale, la casa in cui abitava era di un ricco rappresentante di liquori. Ma da qui a farne il ritratto di una femme fatale ce ne voleva.
I soliti giornalisti misero le mani sulle lettere che la vittima scriveva regolarmente alla sorella Gertrud, in Germania. Sognava un matrimonio, una casa comoda e dei bambini, assieme a un vago desiderio di sfondare nel cinema. Una ragazza come tante, certamente bella, ma in fondo anche banale. Lo testimoniarono anche le foto dei suoi album privato. Christa in bikini che finga di suonare un sassofono in pose che volevano essere provocanti ma risultavano più goffe che altre, o lei vestita da collegiale. Immagini da vetrina appunto, "pose" dietro alle quali non si celava una vita "maledetta", proprio come in via Veneto si muoveva una nutrita fauna di figuranti in atteggiamenti provocanti, eccessivi, ma sostanzialemente innocui. E allora tutti tornarono a chiedersi: chi uccise la "bella tedesca"? Forse un maniaco? Ed ecco che dieci mesi dopo comparve, come evocato dalle colonne dei quotidiani, il diabolico assassino.
Il 9 marzo un uomo chiamò la redazione di Momento Sera. "Sono il fratello dell’assassino, ho il suo diario. E’ tutto scritto lì". Il telefonista si lasciò prendere la mano, adulato dal giornalista che lo invitava a parlare mentre invitava con dei cenni i colleghi ad avvisare la polizia. "mio fratello colpirà ancora, ha una lista di donne che vuole uccidere, bisogna fermarlo. Io vi aiuterò, ma bisogna muoversi con cautela…" La telefonata venne "agganciata" dagli agenti, l’uomo all’altro capo del filo venne pizzicato che aveva ancora la cornetta in mano. Fu identificato come tal Guido Pierri di anni 35, pittore originario di Carrara. In casa la polizia gli trovò un abito blu e quattro quaderni infarciti di disegni macabri con donne trafitte da decine di coltelli, e la minuziosa descrizione del delitto in via Emilia. Oltre ad alcune note criptate con un codice così infantile da apparire comiche: "Colpire in Jospeh Ferraiuolo 35 B5", "Uccidere la microgallica". Gli investigatori risalirono nel primo caso al civico 35 di via Giuseppe Ferrari 35, scala B, interno 5, dove viveva una donna, Rosa Donati. Nel secondo rintracciarono una ragazza francese di bassa statura chiamata Micheline. Entrambe raccontarono di essere state avvicinate dal Pierri con scuse banali. La stampa aveva il suo maniaco. Ma in pochi tra i cronisti credettero davvero alla sua colpevolezza. Nemmeno lui aveva il phisique du role dell’assassino seriale, così come Christa in realtà non risoltò in effetti una maliarda.
Il pittore si difese: "Mi sono inventato tutto, speravo nella ricompensa promessa dal giornale per chi fornisse notizie utili alla soluzione del caso (eh già, all’epoca i quotidiani offrivano "taglie" pubbliche pe r incastrare gli assassini o per accaparrarsi notizie)". E i quaderni? "Mi sono lasciato influenzare dalle cronache. I dettagli erano tutti nero su bianco". Il caso si chiuse con una bella incriminazione per tentata truffa, Pierri schivò la galera grazie a un’amnistia.
Sembrò calare il sipario, ma dopo ben sette anni un settimanale tedesco ipotizzò uno scenario molto più intricato dietro la morte di Christa: la ragazza frequentava persone molto in vista, ricchi industriali, gente legata al Sifar. La procura riaprì il fascicolo, ma non approdò a nulla.
Ci pensò un ufficiale dei carabinieri a far tornare Christa agli onori delle cronache, nel 1974. Il militare, ex addetto stampa del generale Giovanni De Lorenzo (quello del Piano Solo, tanto per intenderci), si dimise dall’arma proprio per indagare sulla morte della ragazza, promettendo "sensazionali rivelazioni". Non fece in tempo: morì in un incidente stradale e non pochi cronisti trovarono singolare questa coincidenza. Emerse comunque che Christa conosceva alcuni personaggi legati alle indagini sulla strage di piazza Fontana, informative dell’Interpol notarono che tra le sue frequentazioni, per quanto superficiali, comparvero faccendieri coincolti in inchieste su traffici cdi armi, valuta, segreti industriali e di Stato. Forse Christa incappò in affari più grandi di lei.
Uno scenario inquietante, forse era quello giusto, ma il terreno si rivelò talmente minato che venne abbandonato dopo pochi, incerti, passi. Il delitto della Dolce Vita tornò prepotente nel 1976, quando ormai via Veneto aveva lasciato il campo ad altri ricchi e di lì a poco sarebbe diventata lo scenario di ben altri personaggi in vista, dal sottobosco politico capitolino ai famigerati boss della Banda della Magliana.
Dodici anni dopo la sua cattura e il suo rilascio, il pittore Guido Pierri viene di nuovo incriminato: nessuno all’epoca dei fatti pensò di verificare il suo alibi, che risultò inesistente. Nel 1977 fu processato, la difesa tentò dapprima di indirizzare le indagini proprio su quelle trame oscure frettolosamente abbandonate, per poi fare leva anche sull’assenza di un movente. A dicembre la sentenza: assoluzione. L’uomo, ormai un fantasma del maniaco che riempì le colonne dei giornali, venne di nuovo portato in tribunale nel 1985. Fu una mazzata: Guido Pierri fu condannato per omicidio volontario. Per lui niente carcere, i giudici stabilirono che era incapace di intendere e di volere, ma solo quel 2 maggio 1963. Il processo si basò sulla ricostruzione "a memoria" di quei famosi quaderni, persi da Pierri chissà quanti anni prima. Per lui fu disposta una perizia psichiatrica postuma che doveva stabilire la sua follia di 22 anni prima.
"Non ci sto, non mi sono mai fatto un giorno di manicomio, mai preso un farmaco mi sono rifatto una vita. Perché non hanno indagato nel mondo di Christa?" si affannò a ripetere il pittore, ormai 53 anne, ai cronisti.
Ma il caso era chiuso, anche dalla stampa e dai lettori, che non riconoscevano più la via Veneto rutilante, abituati a ben altri delitti e violenze.