Ci salvi chi può da D’Alema e la sua antipolitica
19 Giugno 2007
“Noi rischiamo un’ondata di anti-politica che può travolgere tutto”. Le parole di Giuliano Amato dello scorso dicembre hanno fatto un po’ dibattere e poi basta. Ma intanto la parola maledetta, antipolitica, che appare ogniqualvolta un leader deve dar conto dei suoi errori e non lo vuol fare, s’è riafacciata nel tramestio politico italiano. Due altri sono stati gli eventi che ci hanno condannato all’inflazione di discussioni sul fantasmino antipolitico, l’uscita del libro stracult e stravenduto di Rizzo&Stella, capolavoro dell’industria del marketing, e un’intervista a Massimo D’Alema che ha aperto un ciclo giornalistico attorno alla seguente frase: “È in atto una crisi della credibilità della politica che tornerà a travolgere il Paese con sentimenti come quelli che negli anni ’90 segnarono la fine della prima Repubblica”. Si salvi chi può. Col 1992 viene in mente la più grave crisi politica italiana, i suicidi in carcere, la magistratura che commissaria la politica e i giornali che scrivono l’agenda delle cose da fare, una classe dirigente frettolosamente screditata, salvo poi essere altrettanto frettolosamente rimpianta. Pagine atroci, evento di rigenerazione morale, cronologie di occasioni fallite per la Grande Riforma che allontanasse dall’Italia il virus della cattiva amministrazione: qualunque cosa sia stato il biennio 1992-1993, è impossibile stabilire qualunque analogia con oggi. Ilvo Diamanti ha smontato il teorema con i numeri: «Il 2007 non é il 1992, perché il 1992 c’é già stato. E perché manca il terremoto del 1989». Eppure le evidenze poco importano. Nella trappola del parallelismo tra 1992-2007 è cascato perfino un commentatore di solito misurato come Sergio Romano, scatenando éferlantes contro i partiti che “si battono per la conquista o la conservazione del potere, e non si rendono conto che stanno perdendo il Paese”. Fosse il solo, Romano. L’intervista di D’Alema è capitata il 20 maggio, e dal quel giorno – è già passato un mese – stare dietro al diluvio di analisi, interviste, ragionamenti, articolesse, lettere al direttore e talk show dedicati al fantasmino dell’antipolitica è stato impossibile. Da lì in poi ogni sortita di critica contro il governo o i costi del Parlamento è stata bollata e catalogata alla voce “antipolitica”. Montezemolo parla? Attento alla tentazione antipolitica. Berlusconi dice che paghiamo troppe tasse? Antipolitico. Qualcuno critica la Commissione europea? Super-antipolitico. Pure Carlo Azeglio Ciampi, sommessamente, ha invitato tutti a evitare “di farci travolgere tutti da un’ondata di qualunquismo”; l’appello, ovviamente, è restato lettera morta.
Come tutte le mode del momento, prima o poi anche questa zolfa finirà e scopriremo che la storiella dell’antipolitica è una bufala colossale, una scemenza sesquipedale, un’idiozia intellettuale fabbricata su misura per creare spauracchi e pericoli immaginari evitando accuratamente di affrontare, quando ci sono, i problemi reali. E però tutta questa confusione terminologica corre il rischio di seppellirci tra le parole vuote evitando di affrontare e risolvere due questioni che, se affrontate, avrebbero già consigliato in partenza l’immediata interdizione dell’utilizzo del termine “antipolitica”. Prima questione: che cos’è l’antipolitica? Tolti qualche seminario universitario, qualche libro tra cui un recente saggio di Donatella Campus, di ragionamenti seri sull’antipolitica in circolazione non ce ne sono. Di definizioni pure. La migliore l’ha data tre anni fa quel gran saggio di Giampaolo Pansa prima di mettersi anche lui a professare anti-castismo: l’antipolitica, quella tosta del 1992, era “la spinta contraria all’unica politica che allora esisteva e contava: quella sfornata dai partiti della Prima Repubblica”. E tale resta, la cosiddetta antipolitica: l’anti-partitismo, cioè la critica ai partiti esistenti, il sentimento anti-establishment, cioè l’opposizione a questo ceto di governo, a questa politica di professione, a questo modo di gestione della cosa pubblica, pulsioni più diffuse ma anche più banali rispetto a un termine, antipolitica, che implicherebbe un atteggiamento più sofisticato e molto più pericoloso, ovvero il rigetto della politica in quanto tale, come strumento di regolazione sociale (a rigor di logica, le uniche forme di regolazione davvero antipolitiche sono la tecnocrazia e il totalitarismo). Il concetto di rupture di Nicolas Sarkozy, ad esempio, si sviluppa attorno al messaggio anti-establishment e di riscatto della politica da vecchie pratiche mortificanti la sovranità popolare. Invece il cattivo uso delle parole, e le distorsioni ideologiche, spingono a quella sottile forma di distorsione secondo cui la politica democratica può essere organizzata solo dai partiti politici, gli ultimi veri partiti politici sono stati quelli della Prima repubblica, dunque tutto ciò che viene dopo è antipolitica. Un saggio di Alfio Mastropaolo di qualche anno fa è illuminante riguardo a questo modo di ragionare, che però condanna a capire poco di ciò che è accaduto nelle democrazie occidentali a partire dal 1990. Così come il populismo correttamente inteso è una richiesta di rigenerazione del rapporto tra cittadini ed élite politiche, l’antipolitica correttamente intesa è una richiesta di rinnovamento della classe politica. Nulla di più, e infatti i cosiddetti “imprenditori dell’antipolitica” (da Umberto Bossi a Giancarlo Cito, da Michele Panto a MVB) su cui la sinistra discute da tre lustri senza averci ancora capito nulla partorendo anzi gollum dell’antipartitismo come l’orlandismo o i girotondi, vincono e incanalano il malcontento popolare in nuove forme movimentiste, differenti dai partiti tradizionali, per trasformarlo in proposte politiche e non in minacce alla democrazia. Il trattamento riservato per anni a Berlusconi dovrebbe essere sufficiente: l’antipolitica è la parola-denuncia che viene impiegata quando si vuole delegittimare le componenti più movimentiste del centrodestra italiano. E allora perché non facciamo un’opera di pulizia lessicale, cancellando definitivamente una parola che genera confusione e partorisce mostri nell’immaginario di qualche manipoli di politici e politologi?
Appresso la seconda questione. Dietro l’uso e l’abuso dei richiami all’antipolitica si cela un’altra idea dominante che si è impadronita del discorso pubblico. L’idea è che si stia creando nella società italiana un’atmosfera di rigetto totale della classe politica, dalle conseguenze imponderabili ma potenzialmente deflagranti, una specie di guerra civile a ritmo underground a cui il libro stracult ricordato all’inizio ha fornito le cifre e formato la vision: basta una miccia e qui esplode tutto, la gente è esasperata, il fossato tra politica e società civile è enorme e pieno di rifiuti, gli italiani sono schifati, la classe dirigente è inetta, non vado più a votare. Aprite qualche forum su Internet o sintonizzatevi su qualche talk show radiofonico e avrete l’immediata percezione di questo sentimento, tanto diffuso a parole, tanto presente nelle analisi e nelle interviste autoedificanti di qualche politico quanto assente nella realtà della vita quotidiana. Sarà come dice Giuseppe De Rita che la società esprime un “menefreghismo disprezzante” verso la politica, sarà come vuole il solito Diamanti che i partiti “rischiano di venire sepolti non dalla rivolta, ma dall’indifferenza”, sarà anche altre cose. I toni restano un tantino drammatici. Ma se tutto ciò fosse vero, se l’Italia fosse un catino incandescente di cittadini pronti alla rivolta contro il potere o tanto scocciati da non volerne sapere più nulla, le rilevazioni demoscopiche dovrebbero quantomeno registrare livelli eccezionalmente alti di rabbia ed estraneità verso la politica da parte degli italiani. Già gli altissimi tassi di partecipazione elettorale dovrebbero rendere un po’ più problematica questa rappresentazione semplicistica. Se poi ci facciamo aiutare dall’ultimo libro uscito sul tema, Gli italiani e la politica (a cura di Marco Maraffi, Il Mulino, pp. 331, euro 26), che si basa su indagini Itanes del 2001 e 2004, su scopriamo ben altro. Peschiamo tra i bei saggi del volume. In Italia la percentuale di cittadini che si interessa di politica non è mai stato superiore a un terzo, sostanzialmente gli italiani non si fidano troppo dei politici e hanno la sensazione di contare poco: trent’anni fa come oggi nulla è cambiato. Aumenta il disinteresse per la politica? No, anzi rispetto a trent’anni fa aumenta la percentuale di cittadini “impegnati”, che conoscono la politica e vi partecipano. Addirittura, rispetto ai mitici anni Settanta dove pareva che tutti facessero politica, la quota di cittadini che hanno svolto azioni di partecipazione politica è rimasta identica (una minoranza). E ancora: diminuisce l’identificazione nei partiti? Sì, ma senza esagerare. L’interesse per la politica è calato? No, anzi è reso più consapevole dalla maggiore disponibilità di risorse informative. Il senso civico è crollato? Nemmeno. Addirittura, scrivono Paolo Bellucci e Carmina Petrarca, la fase di “depolarizzazione ideologica […] sembra favorire la polarizzazione dell’elettorato italiano su quei valori che tradizionalmente hanno sempre diviso gli elettori di destra e di sinistra degli altri paesi occidentali”, liberandoci dal goffo appesantimento delle subculture. Tra luci e ombre, un quinto della nostra cittadinanza è composta da colui che Giacomo Sani definisce civis nobilis. Un Paese normale, anche quando vota a destra. Dati che vengono confermati anche dai sondaggi più recenti (se ne avete voglia, fatevi un giro sui siti specializzati), condotti in questi infuocati giorni della pseudo-antipolitica, non ci fanno apparire certo la Danimarca, ma neppure una polveriera su cui è seduta una classe politica incosciente. La democrazia non è in emergenza, le élite hano bisogno di una tosta revisione e di un sano percorso di autocoscienza ma non ci sono spettri in circolazione: se, poniamo, il governo dovesse cadere, non sarebbe colpa dell’antipolitica ma dell’inefficacia della classe dirigenti, non salirebbero i barbari a palazzo ma i rappresentanti di un elettorato normalmente europeo. Lasciamo stare l’antipolitica: ci si perderà certo in suspense e in allarmismo ma si guadagnerà nella comprensione dell’Italia reale che, qualche volta a bassa voce e qualche volta tuonando, chiede solo una politica migliore.