Ci voleva WikiLeaks per far riemergere dall’oblio l’imam Abu Omar
27 Agosto 2010
Non è stato poi questo grande scoop la pubblicazione del memorandum della Cia intitolato “Sugli Stati Uniti come esportatori del terrorismo” sul sito di controinformazione WikiLeaks. Nel documento che risale al febbraio scorso i guru dell’Agenzia si chiedevano che effetto potrebbe avere sulle relazioni internazionali il fatto che gli Usa abbiano “esportato terroristi” nelle file dell’Ira, tra i sionisti fondamentalisti o fra gli attentatori di Bombay. “Esportato” senza un ordine diretto di Washington, ovviamente, perché le libertà americane e il fatto che gli Usa non aderiscano ad alcuni trattati internazionali (per esempio non accettano la sovranità del tribunale penale internazionale) favorirebbero i terroristi che lasciano il suolo americano per andare a colpire altrove.
Questo stato di cose sfavorirebbe l’America, visto che molti stati, anche Paesi alleati degli Usa, tenderebbero a opporsi a tutte quelle operazioni extragiudiziali, come le “renditions” inaugurate da Clinton e moltiplicate da George W. Bush, con cui i servizi segreti americani hanno arrestato e trasferito dei sospetti in Paesi terzi per interrogarli. Ed ecco rispuntare la storia tutta italiana dell’imam Abu Omar, prelevato in Italia dalla Cia nel febbraio del 2003 con il tacito assenso dei nostri servizi (ma non della magistratura che stava indagando su di lui), trasportato in Egitto dove sarebbe stato torturato e poi rilasciato non prima di ricevere un offerta di due milioni di dollari per pagare il suo silenzio.
Storia vecchia che a suo tempo mostrò i deficit operativi, prima ancora che ‘etici’, della Cia (gli agenti si lasciarono dietro una serie di prove che avrebbero permesso ai nostri giudici di scoprirli e incriminarli), e che andrebbe in ogni caso inquadrata nel contesto della War on Terrorism: all’epoca Abu Omar era ritenuto – a torto o a ragione questo non è dato saperlo con certezza – un ‘facilitatore’ per i jihadisti diretti in Iraq o in Afghanistan. Oggi invece valuta se candidarsi o meno alle prossime elezioni egiziane con il Movimento 6 aprile o l’Assemblea Nazionale per il Cambiamento, due liste anti-Mubarak.
Visto che ormai la storia della rendition di Abu Omar appartiene al passato, lo scoop di Wikileaks non ha ricevuto grande attenzione dalla stampa italiana, ad eccezione di un paio di articoli del sempre attento (ma in questo caso piuttosto neutrale) Maurizio Molinari sulle pagine della Stampa e del più arrabbiato Federico Rampini su Repubblica (“gli esperti dell’Agenzia mettono in discussione una pratica consolidata e un principio che sembrava sacro: la pretesa degli Stati Uniti di considerarsi al di sopra delle leggi internazionali”). Per il resto, solo qualche breve di spalla, ben poco rispetto allo squillare di fanfare che nelle ultime 24 ore su Internet aveva anticipato la pubblicazione del memorandum.
Per cui possiamo fare due ordini di considerazioni sul sito più discusso del momento. La prima è che Julian Assange e i suoi stanno esagerando, come quando, settimane fa, dissero che i “warlogs” avrebbero “eclissato qualsiasi altra cosa detta in precedenza sull’Afghanistan. Cambieranno la nostra prospettiva con cui guardiamo non solo alla guerra in Afghanistan ma anche alle guerre moderne”; ebbene, anche nel caso del memo ‘rubato’ alla Red Cell si tratta di informazioni che gli esperti (o presunti tali) e i bloggers si affannano quotidianamente a denunciare in Rete, con dei toni molto più carogneschi di quelli della Cia, la quale, dopo la pubblicazione del documento, ha commentato con un grande sbadiglio lo scoop di Assange. Langley addirittura ha confermato per la prima volta la veridicità del documento, come a dire che su questi temi ormai c’è ben poco da aggiungere.
L’altra considerazione riguarda invece le motivazioni per cui Wikileaks pubblica alcuni documenti piuttosto che altri, la tempistica scelta per aggiornare il sito, e la sua ideologia (e sì, perché come ogni strumento internettiano ne ha una, sarebbe stupido ritenerla un contenitore neutrale). Ebbene, Assange ha deciso di combattere una guerra personale e senza quartiere contro il Pentagono e le strutture della forza e della intelligence americana. Non essendo uno sprovveduto, sapeva che i suoi avversari lo avrebbero preso di mira, com’è accaduto nei giorni scorsi quando sono spuntate le accuse di stupro contro di lui, poi ritirate, ma solo in parte, perché un giudice svedese continua a ritenerlo colpevole di molestie sessuali.
Ed ecco che in questa partita di guardie e ladri spunta fuori il memo della Cia, un documento di cui probabilmente Leon Panetta non parlerebbe mai ai giornalisti riuniti in conferenza stampa ma che, come i warlogs, non racconta molto di più di quello che già sappiamo sulla guerra al terrore, anche perché la filosofia di WikiLeaks è quella di preservare l’anonimato delle sue fonti, oltre che dei suoi finanziatori, come ha giustamente sottolineato Lucia Annunziata. Assange il molestatore ha distolto l’attenzione dalla sua persona per concentrarsi sulle problematiche relazioni transatlantiche nell’era della guerra al terrorismo, dunque. Ma provate a dare un’occhiata al suo sito: i guastatori di WikiLeaks avrebbero potuto raccontarci che ci fa Carter in Corea del Nord oppure cosa c’era il presunto attentato ad Ahmadinejad e invece nell’home page si parla d’altro, possibilmente di quanto sono cattivi gli Usa.
Conclusione: non solo Assange si autoincensa pubblicando scoop di second’ordine ma continua ad avere come unico idolo da massacrare l’America e più in generale il mondo occidentale. Per cui alla fine il risultato è che Abu Omar può alzare la voce dal lontano Egitto commentando sdegnato “Il mio rapimento ha svelato senza dubbio il vero volto dei servizi segreti americani, che compiono operazioni contrarie alle convenzioni internazionali”. Secondo l’imam di quel paradiso dell’islam moderato e dialogante che prendeva il nome di Moschea di Viale Jenner, "gli Usa sono un paese che esporta il terrorismo".