Cinque domande sul Partito democratico

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Cinque domande sul Partito democratico

23 Aprile 2007

La battuta migliore sui due congressi di Democratici di sinistra e Margherita, che dal Mandela Forum di Firenze (luogo evocativamente veltroniano) e dallo Studio 5 di Cinecittà (luogo fellinianamente rutelliano) hanno deciso di sciogliersi nei prossimi mesi per mettere su il Partito democratico, l’ha fatta Enrico Vaime su La7, a Omnibus, domenica mattina: «C’è il congresso? Uh, non so cosa mettermi…». Piero Fassino aveva già replicato, con gimcane ideologiche encomiabili, ai tanti dubbi sotterraneamente covati e raramente esplicitati della sua base: «Ci chiameremo ancora compagni? Che fine fanno le “Case del popolo”? Enrico Berlinguer sta dentro o fuori il pantheon democratico?».

Francesco Rutelli invece non aveva ancora chiuso il congresso Dl con una relazione che passerà alla storia per la sua sconcertante vaghezza. A parte qualche frase a effetto, i taccuini dei più seri cronisti politici – nel buio peraltro opprimente della sala – sono rimasti quasi intonsi. Ma, si dirà, quando devi fondere due partiti non puoi stare troppo a sottilizzare sulle dispute ideali, sui ragionamenti organizzativi, perché una precisazione di troppo fa saltare l’ingranaggio, semina dubbi, accende dispute che intossicherebbero ancora di più il poco ossigeno politico che la nuova classe dirigente del Pd ha a disposizione in questo periodo.

Però, sincerità vuole che, dopo quattro giorni di dibattiti, di colonne sonore, di coreografie a scivolo, di poesie di Vincenzo Cerami e di soubrette in sala, troppe domande rimangano sospese in un limbo pericoloso. La prima l’ha riassunta gelidamente il manifesto: le idee del Pd? Tre caselle vuote. Nessuno, ma proprio nessuno, ha compreso quale sarà il progetto per l’Italia che il nuovo partito di centrosinistra intende proporre agli elettori, considerato che il “Manifesto” approntato dai dodici saggi piace solo a loro e a pochi altri.

La seconda domanda è più terra terra: se domani si votasse, quanti voti prenderebbe il Pd? L’incubo del sondaggio che dà il nuovo partito al 23%, cifra da ecatombe politica, non s’è dissipato. Al contrario, il niet di Fabio Mussi, le spallucce dei Boselli e dei Mastella, l’ironia della sinistra radicale sul partito tanto “americano” che piace solo a Paolo Mieli, per ora mostrano che il Pd nasce per sottrazione rispetto ai due soci fondatori e non per aggregazione di nuovi soggetti davvero in grado di portare al Pd nuove idee e soprattutto nuovi militanti. La sensazione, infatti, è che le tante sigle associazionistiche che sono nate nei mesi scorsi per sponsorizzare il Pd siano, in termini numerici, davvero poca cosa per cantare vittoria.

La terza domanda è: anche supponendo che le tappe verso la nascita del Pd vengano rispettate, se nel 2008 e nel 2009 dovessero arrivare delle pesanti sconfitte elettorali prima alle amministrative e poi alle europee, che cosa succederà? Già l’entusiasmo è poco, e basta un soffio di vento per mandare all’aria il castello di buone intenzioni messo su da Fassino, Veltroni, Parisi, Rutelli e da coloro che hanno investito su questo progetto il proprio destino politico.

La quarta domanda è: se il governo dovesse entrare in crisi il Pd, la cui sorte è legata a doppio filo a quella dell’esecutivo, che fine farà?

La quinta e ultima domanda è: se la costituente socialista dovesse avere successo, se il piano di aggregazione della sinistra radicale pure, il Pd che spazio avrà a disposizione per non provocare un’emorragia di consensi verso la sua sinistra? Piero Fassino ha assicurato che il Pd «è di sinistra», da Cinecittà abbiamo ascoltato messaggi diametralmente opposti. Quanta confusione. Mao diceva, come è stranoto, che quando c’è confusione sotto il cielo è sempre una buona notizia. Ma Mao, è noto anche questo, non fa parte del pantheon del Partito democratico.