Colpire i sindacati per ridurre la spesa pubblica

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Colpire i sindacati per ridurre la spesa pubblica

30 Giugno 2008

Renato Brunetta prosegue nella sua sacrosanta battaglia mettendo a punto, strada facendo, la strategia. Se all’inizio il ministro faceva leva soprattutto sugli aspetti più comunicativi del problema (‘licenziare i fannulloni’, costringere i dirigenti a fare il loro mestiere e quant’altro), col trascorrere delle settimane ha preso il sopravvento il profilo concreto (normativo vero e proprio) della riforma. Quanti credevano che il ministro si sarebbe limitato ad enunciare dei buoni propositi e basta, ha dovuto ricredersi. Ben presto, dopo l’operazione trasparenza, sono arrivate corpose iniziative legislative che, essendo inserite nella manovra estiva, non solo godono dell’appoggio dell’intera compagine governativa e della maggioranza, ma costituiscono l’altra faccia dell’operazione varata da Tremonti, nel senso che il taglio annunciato e previsto alla spesa corrente, nel prossimo triennio, si realizzerà, in gran parte, proprio mediante le misure volute da Brunetta. 

Il ministro ha potuto andare avanti, praticamente indisturbato, non solo per il favore che incontrano le sue proposte nell’opinione pubblica, ma anche e soprattutto per la velocità con cui ha agito, prendendo di sorpresa avversari lenti a muoversi e che non si aspettano di imbattersi in interlocutori coraggiosi pronti a fare quello che dicono. I leader sindacali, d’abitudine, agiscono in modo contrario (non fanno mai quello che annunciano) e si aspettano che tutti si comportino al pari di loro. Brunetta invece è stato di parola. Ma con le sue iniziative – specie da quando si è reso conto che non cambierà mai nulla se non si spezza lo strapotere sindacale e non si rivede la costituzione materiale improntata sul consociativismo – il ministro ha calpestato un nido di vipere velenose che non tarderanno a rivoltarsi contro. Con l’ultima mossa, però, Brunetta ha svelato il vero volto del sindacalismo nella pubblica amministrazione, una volta gettata la maschera della dichiarata disponibilità al cambiamento, a fronte di un’effettiva e disperata difesa dello status quo. 

Non che i problemi esistano solo nel settore pubblico. Lì si presentano nella loro espressione esagerata fino al paradosso. Ormai, nello svolgimento dell’attività sindacale è praticamente scomparsa ogni forma di volontariato (sopravvive al massimo in qualche lega sperduta di pensionati). Centinaia di migliaia di persone (dirigenti, funzionari e attivisti) esercitano la loro professione totalmente a carico dei datori di lavoro (ovviamente, nel caso dei pubblici dipendenti, a carico di noi tutti). Il lavoro sindacale si svolge durante il normale orario o si avvale di permessi retribuiti. Ciò vale per le assemblee (10 ore all’anno), per le riunioni degli organi dirigenti (8 ore al mese) senza limiti di numero e di incarichi, per lo svolgimento dei compiti delle rappresentanze aziendali (oltre ai limiti di legge si contrattano in azienda appositi monte-ore). Se poi il dipendente “fa carriera” nella sua organizzazione e ne diventa un dirigente a tempo pieno, può usufruire di altri due istituti: il distacco e l’aspettativa sindacale. Nel primo caso (si tratta di una prerogativa tipica del pubblico impiego ma non estranea alle grandi imprese private) il dipendente continua ad essere pagato dell’Amministrazione (percepisce persino i premi di produttività) ma lavora per il sindacato. Sono ben 3.007 di “distaccati” (uno ogni 1.164 travet) per un onere  annuo (inclusivo di Irap ed oneri sociali) pari ad oltre 116 milioni di euro. Ad essi vanno aggiunte 420mila ore di permessi retribuiti per un costo di 9,2 milioni di euro. Nel secondo caso (generalmente diffuso nel mondo privato), per il dipendente in aspettativa il sindacato non versa la contribuzione sociale, che è considerata figurativa e quindi a carico di noi tutti. I sindacalisti sono i soli ad aver conservato tale privilegio, che una volta era riservato anche ai componenti delle assemblee elettive. 

Fin qui, dunque, i costi. Si tenga conto che questi “diritti” devono essere moltiplicati per il numero di sindacati considerati rappresentativi, perché firmatari dei contratti collettivi. Si spiega, così, il proliferare di sigle sindacali nei settori del pubblico impiego e dei servizi: conquistare un “posto a tavola” (dove si stipulano i contratti) significa poi aver accesso al “tesoretto” della nullafacenza (per dirla con Pietro Ichino) a favore di centinaia di attivisti. Ma come funzionano i rapporti economici tra i sindacati e i loro iscritti? 

A parte il ricorso alle quote di servizio, una forma di finanziamento destinata alle federazioni di categoria, connessa alla distribuzione – ad opera delle aziende per conto dei sindacati – del testo del nuovo contratto, l’adesione si concretizza con la sottoscrizione della delega (di durata permanente salvo revoca) con la quale il lavoratore autorizza il proprio datore ad effettuare la ritenuta sulla busta paga del contributo associativo. Le somme così raccolte sono versate, a cura dell’azienda, nel conto corrente delle organizzazioni sindacali territoriali (solo i pensionati e il personale della scuola hanno un sistema di riscossione centralizzato). Quest’obbligo derivava da una norma dello Statuto dei lavoratori, poi abrogata da un referendum del 1995. Così, tutto il sistema di esazione e versamento dei contributi associativi (che è effettivamente un costo amministrativo per le imprese) si basa adesso su vincoli unicamente di natura contrattuale, che hanno perduto il loro fondamento legislativo e che potrebbero essere legittimamente disdetti. E’ difficile sapere quanto sia il gettito delle deleghe (il prelievo è solitamente pari all’1% dello stipendio mensile), anche perché non esistono bilanci consolidati delle confederazioni, in quanto ogni istanza predispone il suo. 

 La signora Thatcher non ebbe bisogno di leggi speciali per piegare uno dei sindacati più potenti e conservatori del mondo. Fu sufficiente stabilire alcune regole tese a sottoporre a referendum dei lavoratori le clausole – di lunga tradizione – che rendevano obbligatoria l’iscrizione al sindacato. Attaccate nella borsa le Trade Unions (la confederazione inglese) non riuscirono più a riprendersi.