Come e perché in Italia giovani disoccupati (non) crescono

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Come e perché in Italia giovani disoccupati (non) crescono

08 Gennaio 2012

 

Secondo le più recenti rilevazioni dell’Istat, la disoccupazione giovanile in Italia ha superato la soglia del 30%, sia pure con andamenti diversi a seconda delle differenti aree del Paese. Così le difficoltà di ordine economico derivanti dalla mancanza di un lavoro e di un reddito sicuri continuano ad essere una delle principali componenti  per cui i giovani rimangono a lungo all’interno delle mura domestiche, molto di più di quanto non avvenga negli altri Paesi europei.

La crisi, pertanto, tende a consolidare un nuovo fenomeno sociale che taluni demografi chiamano della <generazione mongolfiera> intendendo per essa un periodo di adolescenza lunga, situata tra i 25 e i 35 anni, che consente ai giovani di ‘‘galleggiare’’ sopra la realtà. Vivono, in sostanza, in un atteggiamento esplorativo sia per quanto riguarda la vita affettiva che quella lavorativa, rimandano il più possibile le scelte definitive, dedicando le loro energie al benessere individuale possibile. 

Il processo di continuo rinvio dell’uscita dalla famiglia – si veda un interessante studio della Cei su <Il cambiamento demografico> – prosegue ormai dagli anni ’90 e riguarda, sia pure con evidenti differenze di genere, una fascia d’età (25-34 anni) in altri tempi collocata ben oltre la soglia dell’indipendenza economica. Nel 2008 (secondo i dati citati nello studio) nella fascia 25-29 anni ben 7 maschi  e 5 femmine su 10  vivevano ancora in famiglia (68,3% dei maschi e 50,6% delle femmine). Considerando la fascia tra i 30 e i 34 anni nel 2008 viveva con i genitori il 39,4% dei maschi e il 22% delle femmine.

Il prolungamento della convivenza nella famiglia d’origine va di pari passo con il ritardo nella costruzione di un proprio nucleo familiare: per i nostri giovani 24-34enni lo status familiare più frequente è quello di figlio che non quello di genitore. Se la condizione economica ha un peso determinante, l’altro elemento – con aspetti non secondari – della permanenza entro le mura domestiche è dato dalla soddisfazione per tale condizione: una motivazione questa addotta in prevalentemente dai 30-34enni. Nelle classifiche europee l’Italia è ai primi posti  per quanto riguarda quest’ultima motivazione. Tanto che, a partire dal 2003, è in aumento la percentuale di coloro che dichiarano di vivere con in genitori perché, a causa delle difficoltà economiche, dovrebbero rinunciare a un certo livello di vita. Anche la diffusione capillare delle università italiane ha favorito la possibilità di frequenza rimanendo a vivere con i genitori, mentre in precedenza, molti giovani dovevano recarsi in altre città (più grandi) per terminare gli studi, sperimentando così, in anticipo, modelli di vita autonomi.

L’età nella quale i giovani lasciano la famiglia d’origine varia sensibilmente a seconda dei diversi contesti europei. Nella maggior parte dei Paesi a 25 anni la maggioranza dei giovani non vive più con i genitori (nell’Europa mediterranea e non solo in Italia, la transizione verso l’età adulta avviene, invece, in famiglia). Su questi casi si diffondono gli articoli contenuti nel n.3/2011  della Rivista delle politiche sociali (Giovani senza). I giovani danesi escono di casa ad un’età media di 20 anni. Nel Regno Unito le de-coabitazione ha luogo sin dalla fine dell’adolescenza, prosegue con studi brevi in grande parte autofinanziati, seguiti a loro volta da un accesso precoce al lavoro retribuito e agli status di coniuge e genitore. Con un’età media di uscita da casa intorno ai 23 anni i giovani francesi manifestano comportamenti più simili a quelli dei danesi e degli inglesi piuttosto che a quelli tipici  del modello mediterraneo, a cui si aggiunge l’Irlanda: in tutti questi Paesi oltre la metà dei giovani di età compresa tra i 25 e i 30 anni resta nella casa paterna anche quando ha un lavoro.

Ovviamente a determinare questi differenti comportamenti vi sono  ragioni di carattere economico (il livello di occupazione giovanile) e gli effetti delle politiche sociali (come il riconoscimento di assegni di studio durante il periodo formativo o di un reddito minimo di cittadinanza). Ma, non vi è dubbio, esistono anche dei fattori di carattere culturale. In tutta Europa sono diffuse, più o meno, le condizioni di disoccupazione e di precarietà tra i giovani. L’Italia è ai primi posti quanto a disoccupazione, ma non  quanto a presenza di rapporti di lavoro precari. Alla base della <sindrome di Peter Pan> di cui sono affetti i nostri giovani sta anche il venire meno di una capacità educativa dei genitori, i quali si autoassolvono per le loro manchevolezze con atteggiamenti ultraprotettivi che non aiutano i figli a crescere.