Come rileggere il rapporto sul nucleare iraniano

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Come rileggere il rapporto sul nucleare iraniano

14 Dicembre 2007

Lo spettacolo straordinario offerto dal consigliere sulla Sicurezza Nazionale del presidente, costretto a difendere la politica presidenziale nei confronti dell’Iran dal Rapporto Nazionale dell’Intelligence, ha sollevato due questioni principali: In che modo possiamo giudicare la minaccia nucleare rappresentata dall’Iran? E in che modo possiamo giudicare la relazione esistente tra la comunità d’intelligence, la Casa Bianca e il resto del governo?

Le “valutazioni chiave” effettuate dalla comunità dei servizi di sicurezza la scorsa settimana, iniziavano con una frase perentoria: “Riteniamo in tutta sicurezza che durante l’autunno del 2003, il governo di Tehran ha fermato il suo programma d’armamento nucleare”. Questa frase è stata universalmente interpretata come una sfida alla politica dell’amministrazione Bush di accentuare la pressione internazionale contro il presunto programma di sviluppo di armi atomiche iraniano.  La stessa frase, però, era ulteriormente precisata da una nota a piè di pagina la cui complessa fraseologia offuscava il fatto che la sospensione in realtà riguardava soltanto un aspetto del programma nucleare iraniano (e nemmeno uno dei più importanti): la costruzione di testate nucleari. Questa specificazione non era ripetuta nel resto del documento, che continuava a fare riferimento al “blocco del programma d’armamento”, senza ulteriori specificazioni. 

Il fatto è che la preoccupazione riguardo al programma d’armamento iraniano si è alimentata di tre componenti: la produzione di materiale per la fissione, lo sviluppo di missili e la costruzione di testate nucleari. Fino ad ora, la produzione di materiale per la fissione è stato ampiamente considerato come l’aspetto più pericoloso, e la velocità con la quale questo processo è andato avanti in Iran è aumentata dal 2006. Allo stesso tempo, anche lo sviluppo di missili sempre più a lungo raggio è andato avanti. Quello che sembra essere stato sospeso, invece, è la ricerca ingegneristica mirata alla produzione di testate nucleari.

L’RNI stima che l’Iran sarà in grado di produrre uranio altamente arricchito e destinato alla produzione di armi nucleare per la fine del 2009 e, con sempre maggiore certezza, più testate atomiche nel periodo che va dal 2010 al 2015. Praticamente la stessa cronologia suggerita dal Rapporto Nazionale dell’Intelligence del 2005. Il nuovo rapporto non si occupa di stimare il tempo necessario a costruire una testata atomica, ma considera la disponibilità di materiale fissile come la discriminante principale verso il raggiungimento di tale obbiettivo.  Se però esiste uno scarto significativo tra questi due processi, allora sarebbe importante conoscerne esattamente l’ampiezza. Neppure ci viene detto quanto il governo di Teheran fosse vicino allo sviluppo di una testata nucleare al momento della sospensione del suo programma nucleare, o quanto in realtà l’insieme dei servizi segreti sia sicuro nello stimare una data per la ripresa dei lavori sulle testate atomiche.  In merito a quest’ultimo punto, il nuovo rapporto esprime soltanto una sicurezza molto “moderata” sul fatto che la sospensione non sia, in effetti, già terminata.

È quindi improbabile che il linguaggio perentorio del Rapporto sia supportato dall’evidenza dei fatti, e le conclusioni sommarie raccolte nella maggior parte delle cronache di dominio pubblico sono ancora meno probabili.  Durante gli ultimi tre anni il dibattito internazionale si è concentrato sullo sforzo iraniano mirato all’arricchimento dell’Uranio con le circa 3.000 centrifughe ora operative. L’amministrazione Bush ha dichiarato che questo fatto rappresenta un passo avanti decisivo verso l’acquisizione di armi nucleari ed ha per questo motivo raccomandato caldamente di adottare una politica di massima pressione diplomatica. Ognuno dei membri permanenti del Consiglio di  Sicurezza dell’Onu ha spalleggiato la richiesta di sospensione del programma d’arricchimento dell’Uranio da parte iraniana; anche se la posizione delle varie nazioni cambia in merito all’urgenza con la quale le loro raccomandazioni dovrebbero essere implementate e in merito alla loro differente volontà di imporre sanzioni.

A questo punto l’RNI sottolinea, senza modificarla, la questione di fondo: fino a che punto le nazioni che  si sono trovate d’accordo nel considerare il programma nucleare iraniano inaccettabile sarebbero intenzionate ad agire sulla base di questa convinzione? Hanno intenzione di aspettare che l’Iran cominci a produrre le sue testate nucleari? I nostri servizi segreti ritengono di essere in grado di individuare quel momento con precisione?  Ci sarebbe, quindi, abbastanza tempo per adottare delle contromisure efficaci? E che succederebbe, allora, al crescente quantitativo di materiale fissile che, stando al rapporto, si sarà a quel punto accumulato? Vogliamo correre il rischio di ritrovarci di fronte ad un avversario il quale, alla fine, acconsentirebbe a terminare la produzione di ulteriore materiale fissile ma che insisterebbe nel conservare la scorta già esistente per usarla come una potenziale minaccia?

Nell’affermare una conclusione in termini così categorici- considerati eccessivi perfino dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica – il rapporto  in questione offusca il confine tra le stime reali e la congettura. Per esempio, questo documento afferma: “Riteniamo con la massima sicurezza che l’arresto [della produzione di testate nucleari ndt]…era diretto primariamente a calmare il crescente monitoraggio e pressione diplomatica risultante dalla scoperta delle attività nucleari iraniane non denunciate precedentemente”.  Da questo passaggio il documento estrapola poi la seguente considerazione: “L’Iran sarebbe meno determinato a sviluppare armi nucleari di quanto avevamo stimato nel rapporto del 2005” e che “potrebbe essere più vulnerabile all’influenza esterna in merito alla questione di quanto abbiamo considerato in precedenza”.

C’è da sperare che il rapporto finale provveda a mettere insieme un’evidenza maggiore a supporto di queste conclusioni. Una spiegazione alternativa più plausibile assegnerebbe un’importanza maggiore al contesto regionale e alle iniziative americane. Quando l’Iran ha fermato il suo programma d’armamento e ha sospeso l’arricchimento dell’uranio nel febbraio 2003, l’America aveva già invaso l’Afghanistan ed era ad un passo dall’invasione dell’Iraq, paesi che confinano entrambi con l’Iran. Gli Stati Uniti hanno poi giustificato le loro azioni per mezzo della necessità di rimuovere le armi di distruzione di massa dalla regione mediorientale. Alla fine del 2003, quando l’Iran aveva già aderito al Protocollo Addizionale per la Non-proliferazione Nucleare, Saddam Hussein era già stato spodestato. È davvero così irragionevole pensare che gli ayatollah siano arrivati alla conclusione che le restrizioni fossero diventate imperative? Per l’autunno del 2005, gli sforzi americani in Iraq sembravano destinati ad insabbiarsi; le prospettive di estendere l’impresa in Iran stavano diminuendo. I capi iraniani potrebbero essersi sentiti liberi di ritornare alla loro politica mirata alla costruzione di un potenziale militare nucleare – forse rinforzata dal desiderio di creare un deterrente alle aspirazioni regionali americane. Visto il fallimento del tentativo segreto, potrebbero anche aver giudicato un ulteriore programma nucleare sotto copertura troppo pericoloso da intraprendere. Ecco allora spiegata l’enfasi posta sul rinnovamento del programma di arricchimento dell’uranio in guisa di un piano energetico civile.  In breve, se la mia analisi è corretta, allora assisteremmo non all’arresto del programma d’armamento nucleare iraniano – come asserisce il RNI – ma ad una sottile, e in ultima analisi molto più pericolosa, versione di questo arresto che risulterà nella costruzione di testate atomiche una volta maturata la produzione di materiale fissile. 

Non é che l’RNI rifiuti questa ipotesi; non la esamina nemmeno. Conclude che “le decisioni del governo di Tehran sono guidate da un tipo di approccio costi-benefici piuttosto che da una corsa all’armamento”. Il fatto è che un’analisi di tipo costi-benefici non esclude una sistematica corsa agli armamenti. Dipende dai criteri con i quali i costi e i benefici sono determinati.  Analogamente, nel perseguire il ragionamento costi-benefici, il rapporto conclude che una combinazione di monitoraggio internazionale e delle garanzie di sicurezza potrebbero “indurre il governo di Teheran ad estendere l’arresto attuale al suo programma di armamento nucleare”. Ma questa è un tipo di politica possibile, non una stima dell’intelligence.  

Una strategia coerente nei confronti dell’Iran non può essere una questione partigiana, che potrebbe comunque essere implementata senza problemi una volta esaurito il mandato presidenziale corrente. Ho spesso argomentato che l’America deve a se stessa la completa possibilità di normalizzare i rapporti con l’Iran. Non serve tranquillizzarci in merito al pericolo reale in modo da perseguire il sogno di un mondo più pacifico. Quello che serve è una visione specifica della questione che congiunga assicurazioni per la sicurezza iraniana e rispetto per la sua identità, con una politica estera da parte di Tehran compatibile con lo stato di cose esistente nel Medio Oriente.  Ma deve anche generare un’analisi della strategia da seguire in caso che l’Iran scelga di attenersi all’ideologia invece che cercare la riconciliazione.

L’intelligence community ricopre un ruolo fondamentale nell’aiutare a designare questo tipo di visione. Ma deve anche realizzare il fatto che più si avventura in congetture politiche, meno autorevole diventa il suo parere. C’era una giusta intuizione nel modo in cui il Presidente Richard Nixon conduceva le discussioni del Consiglio di Sicurezza Nazionale all’inizio del suo primo mandato.  Nixon invitava il direttore della CIA illustrare le possibilità e le intenzioni dei paesi di cui si discuteva, ma gli chiedeva di uscire dalla stanza durante le deliberazioni politiche.  Molte delle decisioni richiedevano però un contributo d’intelligence e  la procedura si rivelò presto inutilizzabile.

Il ramo esecutivo e l’insieme dei servizi di sicurezza hanno attraversato un periodo alquanto duro. La Casa Bianca è stata addirittura accusata di politicizzare l’intelligence: gli stessi investigatori sono stati accusati di promuovere politiche istituzionali tendenziose. Il documento contenente le valutazioni chiave non fa altro che accelerare la controversia, costernando gli alleati e confondendo gli avversari.

Il personale dell’intelligence deve ritornare alla sua tradizionale anonimità. I politici e il Congresso dovrebbero ancora una volta assumersi le responsabilità delle loro stime senza coinvolgere l’intelligence nelle loro giustificazioni pubbliche. Definire il giusto bilanciamento tra gli utilizzatori e produttori dei rapporti d’intelligence non è un compito che può essere assolto alla fine di un’amministrazione. È, comunque, uno dei compiti più urgenti che un Presidente appena eletto si troverà ad affrontare.

 

Dal Washington Post del 12 dicembre 2007
traduzione di Andrea Holzer