Come smontare le strutture societarie con “segreti” nei paradisi fiscali
07 Luglio 2010
Uno dei problemi principali di un’efficace azione di contrasto all’evasione fiscale riguarda come smontare le strutture societarie costituite per nascondere i patrimoni nei paradisi fiscali. In tal senso assumono particolare rilievo gli assetti societari di enti come i trust.
Uno degli Stati eletti a patria della gestione dei grandi patrimoni è senz’altro San Marino, che, anzi, proprio a seguito del rientro in Italia di oltre 100 miliardi di capitali (effetto scudo fiscale) si propone sempre più come sede ideale dei trust. Del resto le norme italiane disciplinano solo parzialmente questo istituto e rinviano per gran parte alla legislazione di Stati esteri (nel caso, per esempio del Trust di Pavarotti, questo era disciplinato dalla normativa degli Stati Uniti).
San Marino invece, nel marzo 2010, ha emanato un’apposita legge che regolamenta in toto tale istituto, compresa la figura del trustee, che può essere rappresentato da un agente residente, ovvero un avvocato, notaio o commercialista iscritto ad uno degli albi della Serenissima Repubblica Sanmarinese.
Ma che cos’è esattamente il trust? Il trust è un istituto attraverso il quale un soggetto (settlor) trasferisce alcuni beni di sua proprietà ad altro soggetto (trustee), che ne diventa l’amministratore nell’interesse di un terzo soggetto (beneficiario). Infine può essere nominato anche un guardiano (protector), il quale dovrà controllare l’operato del trustee.
Oggetto del trust possono essere beni immobili, beni mobili registrati, titoli di credito e partecipazioni societarie. Sotto il profilo causale, invece, possono esserci vari tipi di trust, dal trust successorio o donatorio, al trust di garanzia, al trust di famiglia, al trust di controllo di una società, solo per fare degli esempi.
Tale istituto può essere del resto anche un facile strumento di evasione e/o elusione ed è già più volte accaduto che l’Amministrazione Finanziaria abbia attribuito i redditi prodotti dal trust ai beneficiari anziché al trust stesso, oggi a pieno titolo soggetto di diritto anche nel nostro ordinamento. Ciò accadrà senz’altro, per esempio, nei cosiddetti casi di trust “nudo”, la cui capacità contributiva non viene attribuita al trust, ma ai beneficiari, i quali possono disporre dei frutti dei beni attratti nel trust. Del resto, nei casi in cui i beneficiari del trust siano individuati, per espressa previsione normativa, i redditi conseguiti dal trust sono imputati direttamente a questi ultimi, in proporzione alla quota di partecipazione indicata nell’atto di costituzione del trust o in altri documenti successivi, oppure, in mancanza di specifica indicazione, in parti uguali.
Nel caso dei trust, peraltro, i criteri di imputazione della residenza fiscale, coincidono con la sede dell’amministrazione e l’oggetto principale dell’attività, laddove la sede dell’amministrazione coinciderà con il luogo dove si trova la struttura organizzativa di cui il trust si avvale nel perseguire il suo scopo (mentre, nel caso in cui non sia possibile identificare con certezza tale luogo, la sede coinciderà con il domicilio fiscale del trustee) e l’oggetto principale dell’attività del trust è, invece, collocato nello Stato in cui si trovano i beni del trust stesso (nel caso in cui i beni o i diritti interessino diversi Stati, si dovrà fare riferimento al criterio della prevalenza).
Come poi stabilito da specifica disposizione antielusiva, i trust esteri, istituiti in Paesi che non consentono un adeguato scambio di informazioni, sono considerati residenti in Italia qualora, alternativamente, il disponente o il beneficiario (effettivo) siano fiscalmente residenti in Italia, oppure siano posti in essere da parte di un soggetto fiscalmente residente in Italia a favore del trust, successivamente alla sua costituzione, atti di trasferimento di diritti di proprietà su beni immobili, di costituzione o di trasferimento di diritti reali immobiliari (anche per quote), ovvero di vincoli di destinazione sugli stessi.
Sono inoltre applicabili ai trust anche le disposizioni in materia di esterovestizione, in base alle quali è considerata esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo in Spa, Sapa, Srl, società cooperative, società di mutua assicurazione, enti pubblici e privati, se, alternativamente, sono controllate, anche indirettamente, da soggetti residenti nel territorio dello Stato, o se sono amministrate da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato.
Il trust è dunque oggi “personificato”, essendo esso stesso soggetto passivo di imposta. Il legislatore ha infatti in particolare previsto che, laddove i beneficiari non risultino identificabili (si parla in questi casi di trust opachi), i redditi del trust vengano tassati in capo al trust personificato, di volta in volta qualificato come ente commerciale o non commerciale.
Diversamente, nei casi in cui i beneficiari del trust siano individuati, i redditi conseguiti dal trust sono a questi ultimi imputati (per trasparenza) in proporzione alla rispettiva quota di partecipazione (se individuata nell’atto di costituzione del trust o in altri documenti), oppure, in mancanza, in parti uguali.
Il trust, però, come detto, può essere usato, a volte, anche come mezzo di elusione fiscale.
Vista l’importanza che, anche nella manovra fiscale, assume un efficace contrasto all’evasione fiscale, può dunque essere utile conoscere (e riconoscere) tali profili elusivi. Volendo enunciare sinteticamente quelli che possono essere gli usi difformi dell’istituto, si sottolinea infatti come il trust (rectius: gli effetti fiscali della sua istituzione) possa essere contestato, ogni qual volta esso sia stato costituito per nascondere l’esistenza di attività all’Amministrazione Finanziaria, o per eludere comunque il pagamento della “giusta” imposta.
Si pensi, per esempio, al caso in cui un disponente trasferisca, in maniera simulata, proprie attività e beni in un trust e tuttavia eserciti ancora il controllo, di fatto, sul medesimo trust, magari anche attraverso lettere di desiderio (letters of wishes), che “impegnano” il trustee a seguire le sue direttive.
Insomma, la caratteristica del trust, che ne assicuri la conformità a legalità, deve essere l’effettiva distinzione di ruolo e poteri tra i vari soggetti in esso operanti: il settlor, il trustee, i beneficiaries e il protector, pena la possibilità di disconoscimento dello stesso atto istitutivo del trust, da considerarsi simulato al fine esclusivo di sottrarre materia imponibile all’Erario.
Il settlor, quindi, non potrà coincidere con il beneficiario e il trustee dovrà avere reali ed autonomi poteri di gestione. Ne consegue che i diritti e le facoltà che il settlor può riservare a se stesso, devono essere tali da non precludere al trustee il pieno esercizio del potere di controllo sui beni.
Gli elementi di prova dell’intento elusivo potranno del resto desumersi anche attraverso indagini finanziarie, oppure attraverso il reperimento di documentazione (o dichiarazioni) che attesti la costituzione simulata del trust.
Il trust, inoltre, oltre ad essere ex se simulato, potrà essere usato anche come strumento per eludere altre norme, come, per esempio può accadere in caso di attribuzione al trust stesso di un pacchetto di controllo di partecipazioni in una società sita in un paradiso fiscale, per aggirare il divieto di ammissione in deduzione di componenti negative di reddito derivanti da operazioni intercorse tra imprese italiane e società controllate fiscalmente domiciliate in paradisi fiscali.
Insomma, l’istituto in sé può anche essere lecito, ma è sicuramente soggetto ai profili di contestazione tipici del cosiddetto abuso del diritto, in base al quale non omne quod licet, honestum est. In parole povere, il fine (quando coincidente con l’intento di evadere le imposte dovute) non giustifica i mezzi.